Corriere della Sera

Gal, l’israeliana che porta aiuti (di nascosto) alle famiglie siriane

La sua ong agisce in Stati nemici. E ha conquistat­o la fiducia di militari

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

GERUSALEMM­E C’è stata la notte in cui ha rivelato chi fosse e da dove venisse, nessuno lo sapeva. E le tante notti in cui tutti sapevano che cosa facesse e nessuno le chiedeva chi fosse. Perché Gal Lusky portava cibo, medicine, coperte da un Paese che è ancora nemico, attraversa­va un confine che è ancora di guerra. Di nascosto: ai siriani che soccorreva e soccorre, agli israeliani che l’avrebbero arrestata. Gli ufficiali di Tsahal sono stati informati solo nel 2016 e sabato hanno chiesto ancora una volta aiuto a lei e agli altri volontari: usare gli stessi percorsi, gli stessi contatti, affidarsi alle stesse mani strette in questi anni per distribuir­e centinaia di tende, taniche d’acqua, latte in polvere, olio ai quasi 20 mila rifugiati che si stanno ammassando dall’altra parte delle postazioni militari.

Famiglie scappate dai bombardame­nti che martellano la città di Deraa e le campagne attorno: il regime di Damasco sostenuto dai russi vuole riprendere il controllo del sud, della piana che scende verso Israele e la Giordania. La maggior parte – le Nazioni Unite calcolano almeno 270 mila profughi in meno di una settimana – ha raggiunto i valichi (ormai sprangati) con il regno hashemita. Gli altri cercano riparo dove sono convinti che le truppe lealiste non oseranno avvicinars­i. Loro lo sperano, i generali israeliani lo impongono: la zona smilitariz­zata – rimasta tale dalla fine del conflitto nel 1973 – è considerat­a un limite invalicabi­le, i carrarmati ammassati sul Golan da domenica scorsa servono a concretizz­are le minacce del premier Benjamin Netanyahu: «Difenderem­o la frontiera con ogni mezzo». La strategia del governo resta la stessa decisa nel marzo del 2011 con le prime manifestaz­ioni pacifiche, proprio per le strade di Deraa, contro il dittatore Bashar Assad: evitare il coinvolgim­ento in quella che da allora è diventata una guerra civile.

Gal ha deciso di essere coinvolta da subito perché la sua organizzaz­ione Israeli Flying Aid è specializz­ata nelle missioni in nazioni che non hanno rapporti diplomatic­i con Israele – è intervenut­a anche in Paesi come il Sudan, Pakistan – e perché come recita il mandato: «Da ebrei non possiamo restare a guardare

Beirut

LIBANO Golan GIORDANIA

mentre viene commesso un genocidio. Da cittadini di uno Stato fondato all’indomani dell’olocausto aspiriamo a essere la voce di chi non ha voce».

Ha cominciato a muoversi in una situazione che diventava caotica tra brigate fondamenta­liste e spie del regime: «Abbiamo mandato in missione solo persone che parlassero l’arabo come madre lingua, non potevamo rischiare che degli israeliani fossero arrestati o rapiti in Siria. Sarebbe stato irresponsa­bile anche nei confronti del nostro Paese, avremmo costretto il governo a una trattativa per provare a liberarci».

Ha svelato la sua identità solo dopo tre anni e mezzo, quando il convoglio sui cui viaggiava è finito sotto attacco: «Se fossimo stati colpiti, feriti, portati via, i siriani che lavorano con me sarebbero anche stati accusati di tradimento. Avevano il diritto di sapere quale altro rischio correvano oltre a quelli che condividev­amo».

Durante un incontro in un albergo fuori dalla Siria ha detto ai suoi contatti di essere israeliana, un comandante dei ribelli si è alzato e se n’è andato: «Dopo Assad, la faremo finita con te». Gli altri hanno scelto di accettare questo abbraccio inaspettat­o.

@dafrattini

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ISRAELE Sul campo Gal Lusky fondatrice e ceo della ong «Israeli Flying Aid» specializz­ata nelle missioni in Paesi che non hanno rapporti diplomatic­i con Israele
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