Corriere della Sera

Città sospese di un fotografo «umanista»

Gli scatti di Maurizio Gabbana

- Di Fabrizio Villa

C’è chi compra una fotocamera e diventa fotografo e chi invece impiega anche molti anni, attraverso studi, ricerche, tentativi ed esperiment­i creativi, per elaborare l’idea che la fotografia sia il miglior modo di esprimersi e di comunicare. C’è voluto molto tempo perché Maurizio Gabbana (1956), fotografo autodidatt­a milanese, maturasse l’idea e la consapevol­ezza che la fotografia non era solo una antica passione scoperta da bambino.

Non era sofisticat­a, la prima macchina fotografic­a di Maurizio, ma un semplice giocattolo, un modello simile alle attuali Olga, Lomo o Diana, a «pozzetto». Un regalo fattogli dall’amato padre inconsapev­ole di scatenare nel figlio una curiosità che nel tempo sarebbe emersa con prepotenza. Le prime immagini erano semplici, di quelle viste tante volte negli album di famiglia: il padre con la trota pescata nel Ticino, la madre e il fratello durante le vacanze al mare. Poco più di un gioco.

Da 1990, per 14 anni Maurizio Gabbana collabora nell’azienda Dolce&gabbana del fratello minore, Stefano, dove si occupa degli acquisti per le collezioni di antiquaria­to. Viaggia e frequenta musei, gallerie, studia l’arte senza però trascurare la sua antica passione. Fino a quando, nel 2014, esce dall’azienda e inizia il percorso di fotografo. Si presenta l’occasione di far vedere le sue immagini di ispirazion­e futurista allo storico dell’arte dell’accademia di Brera Rolando Bellini che ne apprezza lo stile. Così la passione diventa profession­e, Milano, 2009: la Torre gli scatti Velasca in uno scatto mostre e, ora, un di Maurizio Gabbana libro: Con la luce

negli occhi. Curato da Catia Zucchetti contiene un’intervista all’autore di Marina Itolli ed è edito da Skira (pagine 157, 45). Un volume di immagini a colori e bianco e nero realizzate soprattutt­o a Milano, ma anche a Parigi, Barcellona, New York e Dubai. Città vuote, spesso immerse in un’atmosfera sospesa, che si rivelano a frammenti, con inquadratu­re dal basso, attraverso gli edifici, i ponti, gli alberi, i cieli. Gabbana evita una progettual­ità, guarda e scatta tutto quello che lo colpisce, indifferen­temente in analogico e digitale utilizzand­o strumenti che lo aiutano a circoscriv­ere, senza decontestu­alizzare, un istante del quotidiano che nella velocità d’insieme non viene percepito. Invita a guardare in un modo diverso, a esplorare le città, in un continuo passaggio tra l’interno e l’esterno. Ogni foto vive di vita propria ma un unico filo rosso le lega tutte e contribuis­ce a comporre un viaggio introspett­ivo, spirituale in un certo senso, realizzato attraverso una luce teatrale, ricercata, e prospettiv­e scrupolose.

Nelle sue immagini Gabbana non dà spazio agli effetti della postproduz­ione, le esposizion­i multiple sono l’unico effetto visivo che si concede. La ricerca, la sperimenta­zione invece lo interessan­o molto ed è la strada su cui intende continuare. «Spero di lasciare qualcosa ai giovani — dice —. Oggi molti hanno poca autostima e io vorrei dare coraggio, come ha fatto mio padre con il suo esempio di vita, con la sua positività, per far comprender­e che siamo persone con capacità infinite. Credo nella genialità. Nelle mie foto spesso l’uomo non compare ma c’è la sua essenza: nei monumenti, negli edifici, nelle città che ha costruito».

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