L’impossibile «mea culpa» sui crimini del regime sovietico
Durante un incontro di storici a Mosca, una decina d’anni fa, ho detto ad alcuni studiosi russi che anche il loro Paese, prima o dopo, avrebbe dovuto chiedere pubblicamente scusa per le molte malefatte del regime sovietico nel corso della sua storia, dalle purghe staliniane e dalla espulsione di intere popolazioni sino alla repressione dei movimenti democratici nei Paesi satelliti. Il fenomeno del «mea culpa» era europeo e mi sembrava obbedire a una sorta di calendario comune. In Gran Bretagna la stagione del perdono aveva fatto la sua prima apparizione dopo l’inizio del declino dell’impero britannico; in Francia, Germania e Italia, dopo i movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta; in Spagna dopo la vittoria dei socialisti nelle elezioni del 2005. Dovunque coincideva con l’arrivo di una nuova generazione che rimetteva in discussione le «verità» della generazione precedente e chiedeva conto a padri e madri di ciò che avevano fatto negli anni in cui la Germania occupava militarmente una larga parte dell’europa e stava sterminando gli ebrei del continente.
Ero convinto che prima o dopo qualcosa del genere sarebbe accaduto anche in Russia.
Uno storico russo con cui avevo una vecchia familiarità mi disse che sbagliavo. La Russia aveva già regolato i suoi conti con le repubbliche del Baltico e non era tenuta a saldarne altri. Intendeva dire probabilmente che soltanto gli estoni, i lettoni e i lituani potevano considerarsi vittime, agli occhi di Mosca, mentre gli altri Paesi non erano privi di responsabilità e non avevano il diritto di essere risarciti con le pubbliche scuse del governo russo.
Non parlò invece dei gulag, delle grandi purghe, dei contadini condannati a morte dalla politica staliniana. Un motivo del silenzio è certamente quello ricordato da Pier Luigi Battista (Corriere del 2 luglio) dopo l’articolo di Fabrizio Dragosei sulle disavventure di uno storico, Jurij Dmitriev, impegnato con l’associazione Memorial nella ricerca dei molti cimiteri in cui sono state sepolte le vittime della repressione. Il sistema postsovietico vuole ricreare la gloriosa continuità della storia russa e non può fare meno del ruolo di Stalin nella grande epopea della guerra patriottica.
Credo che vi siano, oltre a questo, altri due motivi. In primo luogo la classe dirigente russa non è stata incoraggiata dalla morbosa febbre dell’autoflagellazione che è arrivata sino alle soglie della Santa Sede e che avrebbe dovuto suscitare molte perplessità anche in Europa. In secondo luogo la nuova Russia post-sovietica non era soltanto piena di vittime e dei loro congiunti. Era anche piena di carnefici e aguzzini. E accadeva spesso che l’aguzzino fosse il vicino della porta accanto. Una interminabile cerimonia del perdono avrebbe diviso il Paese e la festa della memoria sarebbe diventata una guerra civile.
Vicini di casa
La nuova Russia non era soltanto piena di vittime e dei loro congiunti. Era anche piena di carnefici e aguzzini