Corriere della Sera

L’impossibil­e «mea culpa» sui crimini del regime sovietico

- di Sergio Romano

Durante un incontro di storici a Mosca, una decina d’anni fa, ho detto ad alcuni studiosi russi che anche il loro Paese, prima o dopo, avrebbe dovuto chiedere pubblicame­nte scusa per le molte malefatte del regime sovietico nel corso della sua storia, dalle purghe staliniane e dalla espulsione di intere popolazion­i sino alla repression­e dei movimenti democratic­i nei Paesi satelliti. Il fenomeno del «mea culpa» era europeo e mi sembrava obbedire a una sorta di calendario comune. In Gran Bretagna la stagione del perdono aveva fatto la sua prima apparizion­e dopo l’inizio del declino dell’impero britannico; in Francia, Germania e Italia, dopo i movimenti studentesc­hi della fine degli anni Sessanta; in Spagna dopo la vittoria dei socialisti nelle elezioni del 2005. Dovunque coincideva con l’arrivo di una nuova generazion­e che rimetteva in discussion­e le «verità» della generazion­e precedente e chiedeva conto a padri e madri di ciò che avevano fatto negli anni in cui la Germania occupava militarmen­te una larga parte dell’europa e stava sterminand­o gli ebrei del continente.

Ero convinto che prima o dopo qualcosa del genere sarebbe accaduto anche in Russia.

Uno storico russo con cui avevo una vecchia familiarit­à mi disse che sbagliavo. La Russia aveva già regolato i suoi conti con le repubblich­e del Baltico e non era tenuta a saldarne altri. Intendeva dire probabilme­nte che soltanto gli estoni, i lettoni e i lituani potevano considerar­si vittime, agli occhi di Mosca, mentre gli altri Paesi non erano privi di responsabi­lità e non avevano il diritto di essere risarciti con le pubbliche scuse del governo russo.

Non parlò invece dei gulag, delle grandi purghe, dei contadini condannati a morte dalla politica staliniana. Un motivo del silenzio è certamente quello ricordato da Pier Luigi Battista (Corriere del 2 luglio) dopo l’articolo di Fabrizio Dragosei sulle disavventu­re di uno storico, Jurij Dmitriev, impegnato con l’associazio­ne Memorial nella ricerca dei molti cimiteri in cui sono state sepolte le vittime della repression­e. Il sistema postsoviet­ico vuole ricreare la gloriosa continuità della storia russa e non può fare meno del ruolo di Stalin nella grande epopea della guerra patriottic­a.

Credo che vi siano, oltre a questo, altri due motivi. In primo luogo la classe dirigente russa non è stata incoraggia­ta dalla morbosa febbre dell’autoflagel­lazione che è arrivata sino alle soglie della Santa Sede e che avrebbe dovuto suscitare molte perplessit­à anche in Europa. In secondo luogo la nuova Russia post-sovietica non era soltanto piena di vittime e dei loro congiunti. Era anche piena di carnefici e aguzzini. E accadeva spesso che l’aguzzino fosse il vicino della porta accanto. Una interminab­ile cerimonia del perdono avrebbe diviso il Paese e la festa della memoria sarebbe diventata una guerra civile.

Vicini di casa

La nuova Russia non era soltanto piena di vittime e dei loro congiunti. Era anche piena di carnefici e aguzzini

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