Corriere della Sera

L’infinito vicolo di Rigoni Stern

Il bosco è l’universo. Ecco perché assomiglia alle vie del Nobel egiziano Mahfuz

- di Gian Antonio Stella

«C’è chi gira il mondo come fosse il vicolo sotto casa sua e c’è chi nel vicolo sotto casa sua vede il mondo intero». Rispondeva così, Nagib Mahfuz, a chi gli chiedeva come avesse potuto diventare uno scrittore di fama mondiale e arrivare al Nobel senza praticamen­te muoversi mai dal Cairo e dal suo quartiere.

Mario Rigoni Stern si sarebbe riconosciu­to in pieno in quella sintesi letteraria, esistenzia­le, umana. Anche se il grande scrittore asiaghese — che se ne andò dieci anni fa e sarà ricordato nei prossimi giorni da Marco Paolini e Simone Cristicchi sul monte Tomba, a cent’anni dalla fine della Grande Guerra, con la pièce teatrale Senza vincitori né vinti scritto a quattro mani da Francesco Niccolini e dallo stesso Rigoni Stern — trascorse la vita intera mille miglia lontano dal Nilo, dalle Piramidi, dal caos vociante del Vicolo del mortaio.

La sua piccola patria era una casa ai margini del bosco vicina a quelle dei suoi amici Tullio Kezich ed Ermanno Olmi, immersa in un silenzio rotto solo dal fruscio del vento tra gli alberi, dal ronzio delle sue api e a volte dalla sventatezz­a cocciuta delle cincialleg­re che sbattevano e sbattevano addosso ai vetri. E così forti erano le sue radici che avrebbe fatto sue le parole di Jean Giono, l’autore de L’ussaro sul tetto, quando spiegò perché non lasciava mai la sua Provenza: «Forse che gli alberi si spostano?»

I personaggi di Nagib Mahfuz erano il «dottor» Bushi che a caccia di bottino rovistava nelle tombe fresche («…afferrò la dentiera e la strappò mettendose­la in tasca») e l’ambiguo padron Kirsha e Zaita che mutilava a pagamento i poveretti destinati all’accattonag­gio. Quelli del narratore veneto erano l’indimentic­abile Giuanìn («il più semplice, il più ingenuo, il più candido di tutti») che lo angosciava durante la campagna di Russia: «Sergentmag­iù, ghe rivarem a baita?». O il Tönle Bintarn che, costretto a scappare dal paese, girava l’europa vendendo le famose stampe Remondini. O Giacomo, che faceva il recuperant­e e batteva i luoghi dove più violenta era stata la guerra e bastava grattare la terra «per trovare ferro, ghisa, piombo, rame, ottone. E resti umani».

Quello era il «vicolo» di Rigoni Stern, dove vedeva il mondo intero: la montagna. La sua montagna. «Vedi», spiegò una volta a Isabella Bossi Fedrigotti, «la montagna per me è casa, rifugio. In montagna non mi succede niente perché so come difendermi dal freddo e dalla fame, non devo avere paura di ladri o scassinato­ri e mi so orientare sempre. In città invece, a Milano per esempio, mi perdo nel giro tre minuti. Il silenzio delle montagna mi aiuta a pensare, a rievocare memorie che mi fanno compagnia di amici perduti, delle alture d’albania, della prima neve in Russia».

Fu quell’addestrame­nto alla montagna, forse, a farlo sopravvive­re nell’apocalisse della ritirata: «Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di munizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla neve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi insensibil­e, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti…»

Quando lesse il suo manoscritt­o sulla guerra, vergato in una baracca «buia, gremita e maleodoran­te» durante la prigionia sui laghi ghiacciati fra Polonia e Lituania, Elio Vittorini capì: era «la cosa più viva scritta sulla guerra dopo tutta la barba che ce ne hanno fatto le pubblicazi­oni propagandi­stiche dei comunisti e dei fascisti». Nel risvolto di copertina azzardò una definizion­e che per un verso onorava il genio dello scrittore e per un altro lo sminuiva: «Una piccola Anabasi dialettale». Dove il vertiginos­o parallelo con Senofonte era in qualche modo rimpicciol­ito dall’altra definizion­e: «dialettale». Per carità, Rigoni Stern era fiero delle sue origini venete e cimbre, però…

Il vecchio alpino ci tornò, tanti anni dopo, sul Don: «Mi giocai in 15 giorni tutti i soldi della liquidazio­ne da impiegato al Catasto. Ventinove anni ci avevo lavorato, ma lo Stato si sa che non è generoso». Il volo costava uno sproposito «così io e l’anna, mia moglie, partimmo per la Russia in treno». Con il Torino-togliattig­rad «che portava i nostri operai a costruire lo stabilimen­to Fiat». Due giorni e mezzo di viaggio. Senza cuccetta. Fino ad arrivare, dopo nuovi treni e corriere, a Nikolaevka e al caposaldo di Ukranska Bulova: «Stavo lì, fermo, ad ascoltare l’acqua che passava e mi sembrava impossibil­e che nessuno mi sparasse». E lì «due vecchie, saputo che ero italiano, mi indicarono col dito le galline. Beccavano il mangime in una delle nostre gavette. La presi, ci guardai dentro, mi sentii le gambe molli. Sul fondo c’era lo schizzo di un cuore con dentro una ragazza: era la gavetta del povero Marangoni».

Autore, dopo Il sergente nella neve, di libri come Il bosco degli urogalli, Storia di Tönle, Le stagioni di Giacomo, L’anno della vittoria e altri ancora, Mario fu secondo Massimo Cacciari «un grande poeta universale; il poeta della fatica nel paesaggio, del rapporto ontologico tra lavoro e natura. Le Georgiche virgiliane andrebbero citate, parlando di lui. Nel loro aspetto più spoglio di retorica, più pudico ed aspro insieme. Opere in onore di questa grande, misera creatura che è l’uomo».

Il successo letterario non lo cambiò affatto. Brontolava soltanto, grattandos­i la barba con un sorriso, per certi piccoli fastidi: «Ciò, qualche volta non ne posso più. In agosto ci son turisti che, se piove e non sanno cosa fare, dicono “come lo passiamo il pomeriggio? Andiamo su a trovare lo scrittore”. E me li trovo qua. Una volta ero giù in orto che lavoravo. Si ferma una macchina: “Ehi, capo, è quella la casa dello scrittore?” Dico: “Sì, è quella”. Fanno: “Sa se è in casa?”. E io: “No, deve essere fuori”. “Grazie capo, arrivederc­i”» .

Qualche tempo prima di andarsene e di lasciare i funghi ai caprioli che glieli contendeva­no, riassunse il senso della sua esistenza dicendo a Paolo Rumiz: «Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Mi basta e avanza. Adesso posso morire in pace». Il ricordo più bello glielo regalò Mauro Corona, che scrisse della sua morte come della caduta di «un grosso larice, di quelli che crescono su costoni di roccia che segnano la strada, quando c’è la nebbia, ai taglialegn­a e ai viandanti della montagna».

 ??  ?? Mario Rigoni Stern (1 novembre 1921-16 giugno 2008) nacque e morì ad Asiago, in provincia di Vicenza (foto Archivio Corsera) Lo scrittore egiziano Nagib Mahfuz (19112006: foto Epa), autore tra l’altro del romanzo Vicolo del mortaio e premio Nobel per...
Mario Rigoni Stern (1 novembre 1921-16 giugno 2008) nacque e morì ad Asiago, in provincia di Vicenza (foto Archivio Corsera) Lo scrittore egiziano Nagib Mahfuz (19112006: foto Epa), autore tra l’altro del romanzo Vicolo del mortaio e premio Nobel per...

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