Basta ambiguità
Anche l’ilva ha il suo cigno nero: una chiusura che le cada addosso senza che nessuno del governo l’abbia evocata né tantomeno decisa in modo esplicito. Nell’ambigua commedia che sta andando in scena quest’estate attorno alla grande acciaieria di Taranto, i passi degli ultimi giorni vanno in una direzione assai pericolosa. E l’immagine di Luigi Di Maio che prova a spiegarne il senso a un’aula della Camera deserta racconta più di mille parole lo spaesamento della nuova classe dirigente di fronte a un evento vagheggiato dai militanti duri e puri e dai guru della decrescita felice, ma che rischia di colpire oltre all’occupazione tarantina (ventimila posti con l’indotto) anche il Pil e le strategie industriali del Paese, lasciando Taranto non meno inquinata (si pensi alle disastrose o fasulle bonifiche di Crotone e Bagnoli) e certo più povera. Accade dunque che l’affare Ilva, quasi concluso dal governo Gentiloni e dal ministro Calenda con l’aggiudicazione della fabbrica alla cordata Am Investco guidata dagli indiani di Arcelor Mittal (prima del 4 marzo mancava solo l’accordo sui livelli occupazionali), venga di fatto revocato in dubbio dalle fondamenta. La gara è stata «un pasticcio» e la concorrenza violata, sostiene il giovane ministro pentastellato, annunciando nel vuoto di Montecitorio nuove indagini, nuovi pareri e chiarimenti, insomma tempi lunghi, forse ben più lunghi di quel mese di settembre che sarebbe la deadline, visto che soldi in cassa non ce ne sono quasi più (Ilva perde 30 milioni al mese) e che anche la pazienza dell’acquirente indiano potrebbe esaurirsi.
Lo schema consueto (usato pure dai governi precedenti in momenti difficili) è ripararsi dietro l’anac: chiediamo a Raffaele Cantone se è tutto in regola. Quanto poco propenso sia a farsi usare come ombrello, il capo dell’anticorruzione lo spiega assai bene oggi alla nostra Fiorenza Sarzanini: un parere su tre segmenti di una vicenda tanto complessa resta un parere (che ha evidenziato criticità), ma ciascuno faccia il suo e la politica si prenda le sue responsabilità.
Di Maio è arrivato a questo grave passo su imbeccata del governatore pugliese Michele Emiliano (secondo Calenda con una manovra concordata). Sempre più capo di ogni rivolta localistica, Emiliano dichiara di voler produrre acciaio pulito, dunque col gas (un mito smontato in parte dai tecnici dell’enea); purtroppo è anche ostile al gasdotto Tap che quel gas dovrebbe portare in Puglia (vorrebbe spostarlo verso Brindisi, con tempi e costi da verificare). A Di Maio ha segnalato «zone d’ombra» nella gara che ha visto sconfitta Acciaitalia, l’altra cordata, guidata da Jindal (che prometteva sì una decarbonizzazione, ma assai parziale e, soprattutto, non pareva avere il profilo economico e
Se qualcuno ha truccato le carte, va punito ma la società perde 30 milioni al mese e la questione va affrontata senza più rinvii
industriale dei rivali). Il vicepremier grillino è apparso quasi sollevato di poter scaricare altrove il macigno che gli grava sulla scrivania del Mise. Ma il sollievo potrebbe essere di breve durata.
Ora cadano le ambiguità: se qualcuno ha truccato le carte deve andare in galera e la gara va annullata. Ma Emiliano, che — pur in politica da anni — continua a sentirsi magistrato così tenacemente da sollevare perplessità negli organi di autogoverno della categoria, dovrebbe sapere meglio di tutti come una notizia di reato, se c’è, vada portata in Procura, non al Mise. E Di Maio dovrebbe avere imparato (leggendo le famose 23 mila pagine di dossier) almeno la tempistica Ilva. Qui la melina è molto rischiosa: perché si nutre del retropensiero di una qualche forma di nuova nazionalizzazione che, prima dell’agonia finale, caricherebbe sulle spalle degli italiani il fardello dell’ultima utopia.