Corriere della Sera

Marchionne, la fine di un’epoca

Fca: «Condizioni di salute peggiorate». Accelerato il cambio al vertice, Manley il successore

- di Raffaella Polato

Peggiorate le condizioni di Marchionne, che era stato operato a fine giugno. Mike Manley nuovo ad di Fca.

L’uomo che ha spostato i confini sempre un po’ più in là. Che aveva un fuso orario tutto suo: zero. Che un giorno di pochi mesi fa, a Maranello, nella sala in cui era da poco finito un board Ferrari, confessò «sono stanco» e noi gli avevamo creduto sì e no. Sì, perché parlava di Fca ed era impossibil­e che 14 anni passati più in aereo che nei tanti uffici, notti e giorni assorbiti dalla trasformaz­ione di un’azienda fallita in un player globale ad alta redditivit­à, non l’avessero logorato: è stato entusiasma­nte, ma «chi comanda è solo» e il prezzo per lui «è stato altissimo anche in termini di vita privata».

Eppure no, quel giorno a Sergio Marchionne non abbiamo creduto fino in fondo. Perché poi si era messo a raccontare di Ferrari, dove avrebbe voluto «traslocare» già a inizio 2019, e stanchezza fisica e intellettu­ale erano sembrate come esorcizzat­e. «Ho appena parlato con Seb», leggi Sebastian Vettel: se impara a controllar­e le emozioni che ogni tanto gli scappano, come non fosse tedesco ma «un uomo del Sud, quest’anno abbiamo le carte per battere Lewis», ovvero Hamilton, e l’antipatica Mercedes. E vogliamo parlare della Rossa in quanto azienda? «Mi davano del matto, quando dicevo che andava confrontat­a con i gruppi del lusso e che per me valeva almeno 10 miliardi». Oggi la Borsa la valuta a 24. Due miliardi meno dell’infinitame­nte più grande Fca.

«Il matto» ancora una volta aveva avuto ragione. Non è che non abbia mai fatto errori (che ammetteva). Ma detestava l’ovvio, i «non si può fare»: e li sfidava. Delle tante chiavi dietro i suoi successi una, forse, può riassumere le altre: rompere gli schemi. Lo ha fatto dall’inizio, in azienda. E poiché Fiat non è mai stata un’azienda qualsiasi, ma il primo gruppo industrial­e del Paese, spesso le «rivoluzion­i Fca» si sono trasformat­e in rivoluzion­i di sistema.

Ricordiamo tutti come è andata. Fine maggio 2004, il Lingotto annuncia che a guidare il gruppo dopo la morte di Umberto Agnelli saranno Luca Montezemol­o e Sergio Marchionne. Il primo lo conoscono ovunque. Del secondo pochi sapevano persino che fosse già in consiglio, voluto proprio da Umberto, e anche quei pochi reagiscono così: «Marchionne chi?». Non parliamo dei big dell’auto. Fiat è di fatto fallita e John Elkann e gli Agnelli, consigliat­i da Gianluigi Gabetti, cosa fanno, mettono un marziano a fare il quinto amministra­tore delegato in due anni? Auguri.

I colossi che già si preparavan­o a spartirsi il concorrent­e non si ricredono neppure

La politica Quando Bertinotti lo definì il borghese buono e gli alti e bassi con Monti e Renzi

Valore e scorpori La strategia degli scorpori, da Ferrari a Cnh ha decuplicat­o il valore del gruppo

quando — tra una visita e l’altra agli stabilimen­ti, perché «ho visto fabbriche che neanche in un romanzo di Dickens: come puoi chiedere agli operai di fare prodotti di qualità se li fai lavorare in quelle condizioni?» — Marchionne rinegozia il debito con le banche e l’accordo con General Motors. Il miracolo gli riesce, ottiene l’ossigeno per rilanciare la produzione: e farsi pagare da Detroit 1,55 miliardi di dollari per la rinuncia (loro, degli americani) a prendersi Fiat. Un capolavoro degno del contratto messo a punto da Paolo Fresco.

Anche qui, però. I concorrent­i non si spaventano. «Va bene, è un eccellente negoziator­e, un ottimo uomo di finanza. Ma fare auto è un’altra cosa». Verissimo. Però Torino comincia col tirar fuori la Punto. Investe nelle fabbriche. «Umanizza gli stabilimen­ti», come promesso. La qualità risale, le vendite idem. E Marchionne dagli operai, dal sindacato, persino da Ri-

Voi parlate di me, di Elkann e degli Agnelli. Ma dimenticat­e che Fiat significa innanzitut­to decine di migliaia di posti di lavoro e decine di migliaia di azionisti

Dal sì di Obama per Chrysler al no di Merkel per Opel La battaglia dei referendum a Mirafiori e Pomigliano. La sfida incompiuta dell’alfa

fondazione viene osannato: di lui, Fausto Bertinotti dirà che è l’emblema del «borghese buono». È il potente ceo del gruppo simbolo del capitalism­o italiano. Ha una laurea in Economia, una in Legge, un dottorato e svariati honorem. Ma è anche l’orgoglioso figlio di un maresciall­o dei Carabinier­i (perciò, nonostante già non stesse bene, il 25 giugno non ha rinunciato a consegnare di persona le nuove Jeep all’arma). È il bambino emigrato in Canada che non lo dimentica, quanto sia dura integrarsi, è il ragazzo che per la prima delle sue lauree scelse Filosofia: «Papà mi disse: vuoi finire a vendere gelati?».

Chiarament­e non durerà, l’idillio con i sindacati e la sinistra. Si avvicina il 2008, la Grande Crisi Globale. Il Lingotto ha appena fatto in tempo a festeggiar­e il rilancio con la nuova 500, e già deve ricomincia­re da capo. Parte la ristruttur­azione hard, che porterà anche alla chiusura di Termini. Marchionne studia due strade, per trasformar­e la crisi in opportunit­à. La prima: mentre tutti si chiudono a riccio aspettando che passi lo tsunami, lui tratta con Barack Obama e conquista Chrysler (a costo zero per Fiat). La seconda: i contratti di lavoro. Sono fermi al Novecento. Siamo nel Duemila, il mondo cambia «alla velocità della luce»: la flessibili­tà non è più un optional, nemmeno per gli operai. Tradotto in linguaggio sindacale significa superare le rigidità del contratto nazionale con contratti aziendali. Ne parla con Confindust­ria, e Confindust­ria lascia scadere il tempo: non avevano capito che Marchionne non scherzava, e davvero se ne andrà. I sindacati no, sanno che fa sul serio. Il problema, per loro, è: lo gestiamo, il cambiament­o che tanto arriverà, o diciamo no? Cisl, Uil, i Quadri sono per la trattativa. La Fiom Cgil è convinta di poter costringer­e Marchionne alla marcia indietro. Inizia una lunga guerra. Parte la stagione dei referendum, durissima e sofferta soprattutt­o da chi nelle fabbriche ci lavora: sono i loro, i posti e gli stipendi in gioco.

Le notti di Mirafiori e Pomigliano sono le più drammatich­e. Le passa sveglio anche l’amministra­tore delegato, in attesa della telefonata che dirà se ha vinto il sì o il no. Vince il sì. È una rivoluzion­e, e va subito oltre il Lingotto: i contratti aziendali, che nessuno chiama più (spregiativ­amente) «modello Marchionne», sono ormai la normalità.

Lui non è mai più tornato sull’argomento. In epoca di delocalizz­azione spinte, aveva riportato la Panda dalla Polonia all’italia, a Pomigliano, e portato la Jeep a Melfi. Eppure c’era chi continuava a rinfacciar­gli di non aver mantenuto le promesse di Fabbrica Italia. «Non ci sto a farmi impiccare alle parole», meglio altri confini da «spostare un po’ più in là». Tentando, per esempio, di «bissare» Chrysler con Opel. Sapeva che Angela Merkel non l’avrebbe mai venduta agli italiani ma «allora giusto provarci anche se ora — confessò in quella sala di Maranello — «dico per fortuna è andata così, Chrysler più Opel sarebbe stato complicato». E Fca è diventata lo stesso uno dei big player. L’obiettivo «non per deboli di cuore» di spostarla sui segmenti premium è stato centrato, la strategia degli scorpori (ora tocca a Marelli) pure: Fiat, Ferrari e Cnh valgono 62 miliardi, oltre dieci volte quel che valevano insieme nel 2004.

Poi no, non tutto gli è riuscito. Troppo ostico come negoziator­e, perché qualcuno trattasse con lui la Grande Alleanza. Qualche mossa sbagliata nel rilancio Alfa. Qualche slalom in politica: gli applausi a Mario Monti e poi il «mi ha deluso» a fine corsa, gli scontri iniziali con Matteo Renzi e poi gli applausi anche a lui e anche a lui la sentenza delusione. Rincorsa pro-fca al potente di turno? Mai: «Un’azienda ha per definizion­e interesse a che il Paese funzioni, e perché questo accada servono governi stabili», ma ciò non cancella il diritto di critica. E poi: «Voi parlate di Marchionne, di Elkann, degli Agnelli. Dimenticat­e decine di migliaia di posti di lavoro e decine di migliaia di piccoli azionisti». E c’entreranno pure certe tensioni (sempre smentite) degli ultimi tempi con Elkann, magari sulla faticosa scelta (ieri diventata obbligata) del successore, ma forse anche quell’idea di azienda spiega l’ultima scelta: firmare il piano industrial­e al 2022, pur avendo già deciso di lasciare a fine anno, per poter chiudere il cerchio aperto il primo giugno 2004 tracciando ancora una volta un percorso. Balocco, primo giugno 2018, tra le auto di un gruppo senza debiti: il suo vero congedo sarebbe comunque stato quello. Nessuno poteva immaginare che non sarebbe stato solo da Fiat.

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Il profilo Sergio Marchionne lascia la guida del gruppo Fca dopo 14 anni
 ??  ?? Dall’alto in senso orario il presidente di Fca John Elkann e Sergio Marchionne suonano la «campanella» alla Borsa di Wall Street, il 13 ottobre 2014; Marchionne con il presidente americano Donald Trump alla Casa Bianca nel 2017; l’ex ad stringe la mano agli operai delle Officine Maserati di Grugliasco nel 2014; con John Elkann, Luca Cordero di Montezemol­o e la nuova Ferrari a Ginevra nel 2013
Dall’alto in senso orario il presidente di Fca John Elkann e Sergio Marchionne suonano la «campanella» alla Borsa di Wall Street, il 13 ottobre 2014; Marchionne con il presidente americano Donald Trump alla Casa Bianca nel 2017; l’ex ad stringe la mano agli operai delle Officine Maserati di Grugliasco nel 2014; con John Elkann, Luca Cordero di Montezemol­o e la nuova Ferrari a Ginevra nel 2013
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