Corriere della Sera

Gli Usa e l’amico Obama

Così il manager ha conquistat­o l’america. A un galà disse: «Lavoro sodo, non ho tempo per i cravattini»

- di Massimo Gaggi

G iugno 2009. Sergio Marchionne si presenta al personale dell’azienda americana della quale è appena diventato amministra­tore delegato: li riunisce nell’ingresso della sede centrale della Chrysler, ad Auburn Hills. È raggiante: ha convinto Barack Obama a non ascoltare i suoi consiglier­i alla Casa Bianca, decisi a far fallire una società che consideran­o irrisanabi­le. Il presidente democratic­o, invece, scommette sulla più piccola delle Big Three di Detroit, dandole linee di credito per 6,6 miliardi di dollari. Marchionne ha anche appena ottenuto la disponibil­ità dei sindacati ad essere della partita: accettano feroci tagli delle retribuzio­ni e del numero di addetti. Il manager è anche riuscito a evitare lunghi contenzios­i con i creditori, ad avere via libera dai tribunali e dalla Corte Suprema chiudendo in appena 41 giorni la procedura fallimenta­re. E ora si presenta ai dipendenti frastornat­i, scettici, ma anche desiderosi di aggrappars­i a un’ancora, come l’uomo della provvidenz­a. Annuncia un «nuovo inizio» della Chrysler e sceglie, con attenta coreografi­a, di farlo davanti alle due auto che considera il simbolo della rinascita possibile: una Fiat 500 blu, colore della speranza, e una Dodge rossa con motore a basso consumo. È il colore della passione ma anche dell’emergenza non ancora finita. È il colore scelto per l’auto della nuova tecnologia energetica risparmios­a (e made in Italy by Fiat) del gruppo americano.

È l’inizio dell’incredibil­e salvataggi­o e rilancio di Chrysler: nasce lì il mito Marchionne. È l’inizio di un’avventura fatta di determinaz­ione estrema fino alla ferocia e di fiducia assoluta che porta risultati miracolosi anche quando qualche progetto industrial­e non ha il successo sperato. I giornalist­i criticano, gli analisti dubitano, ma lui va avanti a tappe forzate: taglia le spese e anche le vendite promoziona­li per far risalire i prezzi. Gioca sul suo prestigio di risanatore della Fiat, ma lo aiuta anche il fatto di essere percepito negli Usa più come americano che come italiano.

Aspro, a volte anche offensivo, con chi gli taglia la strada, Marchionne impara a dialogare con la politica. Si fa apprezzare fino a diventare il beniamino di leader governativ­i e sindacali. Fino al capolavoro di riuscire a entrare nel cuore di due presidenti diversissi­mi, addirittur­a opposti: Obama e Donald Trump.

Barack va a trovarlo molte volta negli stabilimen­ti Chrysler e Jeep che hanno ripreso l’attività e assumono in Michigan, Ohio, Indiana e in altri Stati. Obama ha rischiato, ma ora viene ampiamente ripagato: la Chrysler restituisc­e tutti i prestiti pubblici ricevuti, con gli interessi, e continua ad assumere espandendo la produzione. Arrivato, quattro anni dopo, alla presidenza, l’autarchico Donald Trump non dovrebbe avere simpatia per Sergio, l’italiano amico dei democratic­i. E invece anche The Donald si innamora di Marchionne: lo elogia più volte (anche grazie al suo impegno a produrre di più in Michigan, riducendo l’attività in Messico) e arriva al punto, in un incontro dell’11 maggio scorso con tutti i massimi capi dell’industria automobili­stica Usa, da General Motors a Ford, da definirlo «il mio preferito in questa stanza».

Per Sergio, comunque, non sono sempre tutte rose e fiori: i suoi tentatitiv­i di negoziare con GM prima l’acquisizio­ne della Opel, poi una fusione tra i due gruppi di Detroit, finiscono sempre nel nulla. I capi di GM lo tengono a distanza, forse memori della sua durezza di qualche anno prima quando, da capo della Fiat, fece a “sportellat­e” con loro, usando anche le sue amicizie a Wall Street, per costringer­e la General Motors a pagare al gruppo torinese un indennizzo di 2,2 miliardi di dollari per la rottura degli accordi siglati prima dell’era Marchionne.

Uomo di miracoli ed eccessi, spartano e narcisista nella sua scelta della divisa del maglioncin­o. A un gala alla New York Library, Sergio si schermì con beffarda faccia tosta: «L’invito diceva black tie o abito nazionale. Il maglione è il mio abito nazionale: lavoro sodo, non ho tempo per cravattini e camicie inamidate».

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Sergio Marchionne con Barack Obama

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