Corriere della Sera

Gioco degli equilibri da Prima Repubblica Cencelli: uguali a noi

- Tommaso Labate

ROMA «Leggo gli articoli dei giornali sulle nomine al Tesoro, alla Cassa depositi e prestiti, alla Rai e, mi creda, è come ritornare a cinquant’anni fa, quando inventai il famoso manuale. Che la Lega e il M5S stanno usando alla lettera». Hai voglia a brandire l’aggettivo «democristi­ano» come se fosse un adesivo da appiccicar­e addosso agli avversari (Matteo Salvini), oppure a dire che «con noi non ci sarà mai alcun accordo stile Manuale Cencelli» (Luigi Di Maio, 10 giugno scorso). La somiglianz­a tra le trattative nel governo Conte sulle nomine e la gestione delle nomine stesse all’epoca della Prima Repubblica ha una certificaz­ione doc che più doc non si potrebbe. E arriva proprio da Massimilia­no Cencelli, oggi ottantadue­nne.

Lo sherpa democristi­ano noto da mezzo secolo per aver declinato in algebra il rapporto tra consenso e poltrone — l’uomo che con la sua formula traduceva gli equilibri dei congressi Dc in posti di governo e sottogover­no — ci vede lo stesso tratto. Come Andreotti e Craxi, Salvini e Di Maio misurano e contano, calibrano e pesano, quindi dividono. «Cdp vale due volte la direzione generale della Rai. È andata a Di Maio? Allora Salvini, oltre al dg Rai, incasserà due direttori di rete», azzarda.

Qualcuno potrebbe pensare che sia un segno dei tempi prendere le distanze da quelli che vengono chiamati «metodi della Prima Repubblica». Se non fosse che, scavando nel passato, si scopre facilmente che anche la Prima Repubblica, ogni volta che iniziava il gioco delle sedie dei manager pubblici, a parole prendeva le distanze da se stessa. «I voti si prendono in un modo. I manager si scelgono in un altro. E le persone

Un incarico a un partito, uno all’altro L’unica differenza è che ai nostri tempi nessuno minacciava nessuno, ma Salvini e Di Maio fanno come noi Paolo Cirino Pomicino

che si occupano dei due problemi non si devono mai incontrare», era la massima attribuita a Giulio Andreotti alla fine degli anni Ottanta. «Fanno come noi anche Di Maio e Salvini. Però va detto che hanno fatto così anche il Pdl e il centrosini­stra», riconosce oggi Paolo Cirino Pomicino. E se durante le crisi di governo degli anni Sessanta il democristi­ano Antonio Sarti liquidava i giornalist­i con un saggio «chiedete a Cencelli», oggi, dice O’ ministro, ai giornalist­i bisogna consigliar­e di «chiedere a Giorgetti, uno dei pochi uomini misurati che ci stanno là dentro».

«Là dentro», a Palazzo, sono le stesse stanze in cui, nella Seconda Repubblica, tutti i ministri dell’economia dal 1994 a oggi hanno subito lo stesso accerchiam­ento di Giovanni Tria e incrociato le armi col resto della maggioranz­a, premier compresi: da Giulio Tremonti, che dopo uno scontro con Gianfranco Fini nel 2004 arrivò a dimettersi, per poi tornare l’anno dopo da vincitore; a Tommaso Padoa-schioppa, mal digerito da Rifondazio­ne Comunista. «Là dentro», a Palazzo, sono anche le stesse stanze della Prima repubblica, con gli stessi riti che sembrano ripetersi uguali anche a decenni di distanza.

«La presidenza Rai era socialista, con Enrico Manca. La direzione generale andava a noi Dc, con Pasquarell­i. La Banca di Roma più nostra, la Bnl più socialista. L’unica differenza è che all’epoca nostra nessuno minacciava nessuno», dice Pomicino. Ed è vero fino a un certo punto dato che all’inizio degli anni Novanta, poco prima della privatizza­zione dell’iri, il leader del Psdi Antonio Cariglia bloccò una vagonata di nomine perché rivendicav­a per i suoi la guida dell’efim: «Se fanno le nomine oggi, sarebbe uno sgarbo. E non credo le faranno».

Efim stava per Ente partecipaz­ioni e finanziame­nto industrie manifattur­iere. Su quella non litiga più nessuno da quando, nel ’92, l’hanno chiusa.

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