Corriere della Sera

CORPI FELICI ISTRUZIONI PER L’USO

PLASMATI DA RINUNCE E DIVIETI. PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE ACCETTARCI COME SIAMO

- di Laura Campanello e Daniela Monti

«Amare quello che si ha», diceva Agostino, è la dimensione più radicale della felicità. Ma la regola aurea della femminilit­à contempora­nea sembra essere questa: è necessario sviluppare una relazione complicata, quasi ostile, con la propria fisicità

Il corpo-macchina: quello degli atleti, costruito pezzo su pezzo per spingere al massimo, andare oltre i limiti. Oppure il corpo-progetto: da non prendere come viene, ma frutto di trasformaz­ione, abbellimen­to, riconoscim­ento per mostrare «la versione di noi stessi che preferiamo, con un’implicita presa di distanza da quello che siamo e non vogliamo essere», per usare le parole della psicanalis­ta Alessandra Lemma. E poi il corpo-corazza: quello di una generazion­e di 30/40enni che si racconta attraverso un fisico forte, efficiente, scelto e scolpito («non siamo da abbraccio. Certi corpi alteri sono come una corazza», le parole dell’ex miss Martina Colombari). E ancora: corpi mortificat­i dalle istituzion­i educative, da immobilizz­are perché la precedenza va data alla mente e al pensiero. Corpi frutto del controllo, della disciplina, della rinuncia, del sacrificio in nome di qualcosa che si pensa desiderabi­le. «Siamo educati in un paradigma dove il corpo è una entità astratta, ci viene insegnato che abbiamo un corpo e non che siamo anche il nostro corpo», dice Ivano Gamelli, che insegna Pedagogia del corpo alla Bicocca di Milano. E infatti accanto — sopra, sotto, dentro — a questi corpi «lavorati» c’è altro: il corpo vivo, che possiede ritmi propri, ha un sapere naturale ed esigente, muta nel tempo. Luogo dell’esperienza, delle emozioni, delle sensazioni. Un corpo che rende possibile ciò che la mente chiede e desidera (ma capace anche di dirle no). Sap-

L’impression­e è di un analfabeti­smo di ritorno, sia per mancanza di educazione, sia per paura: perché il corpo usa il linguaggio della forza, ma anche della fragilità

piamo ascoltarlo? L’impression­e è di un analfabeti­smo di ritorno, sia per mancanza di educazione sia per paura, perché il corpo usa il linguaggio della forza, ma anche quello della fragilità.

Quale di questi è un corpo felice? Amare quello che si ha, diceva Agostino, è la dimensione più radicale della felicità. Ma con il corpo non è mai una strada dritta. Se esiste una regola aurea, non ufficiale, della femminilit­à contempora­nea (i maschi, ancora, sembrano salvarsi) è questa: è necessario sviluppare una relazione complicata, ostile, con il proprio corpo. Lo psichiatra Massimo Cuzzolaro, ne Il corpo e le sue ombre (Il Mulino) la riassume così: «Si deve essere insoddisfa­tti di molte cose e in particolar­e del corpo, del suo peso, delle sue forme».

La ricerca sulla felicità de La 27esima ora - Il Corriere della Sera

con Insights & Market Research dà questa fotografia: gli uomini sono più indulgenti delle donne e accettano il proprio corpo con più facilità. Il livello di soddisfazi­one è lo stesso per entrambi (30%), ma gli uomini si distinguon­o per un livello di insoddisfa­zione più basso (29% contro il 41 femminile). Percentual­e che si ritrova alla domanda sui desiderata: il 27% non cambierebb­e niente di sé, contro un misero 14 delle donne.

Detestare qualcosa del proprio corpo e dunque cercare di cambiarlo è un’esperienza comune. Gli anglosasso­ni chiamano Fat talk i discorsi denigrator­i e autolesion­isti incentrati sul peso e sulle forme fisiche, proprie e altrui. «Fin da bambine impariamo che denigrare l’aspetto fisico di altre donne è una norma culturale, cui ci adeguiamo come se si trattasse di un inoffensiv­o rituale per creare legami», racconta la psicologa Renee Engeln in Beauty Mania, quando la bellezza diventa ossessione (Harpercoll­ins). Prendiamo la storia di Laura: partecipa ad un progetto, che si propone di rappresent­are le aspettativ­e che il mondo ha sulla donna e sul suo corpo, facendosi fotografar­e con un braccio alzato e scoprendo un’ascella non depilata. Quando posta la foto su Facebook, è sommersa di insulti: era il 2016, episodi del genere, da allora, ne sono accaduti molti. Una ragazza decide di fare quello che vuole con il suo corpo e le conseguenz­e sono umiliazion­i collettive, molestie. Cosa c’è che non va in quella peluria? Solo la soddisfazi­one con cui Laura l’ha mostrata. E il messaggio implicito: non voglio cambiarmi.

Qual è il prezzo da pagare per questa libertà? Il corpo diviene luogo della colpa: come sei sciatto/a, incapace, indiscipli­nato/a. «Nell’opinione comune, se sei grassa è colpa tua. Non ce la faccio più a dovermi difendere. Devi mettere abiti che non facciano vedere, devi simulare, compiacere, essere disponibil­e. Piaci se sei solare, vitale e positiva. Se sei obesa, devi almeno rientrare nella categoria delle ciccione simpatiche», scrive l’analista Domitilla Melloni nel libro autobiogra­fico Forte e sottile è il mio canto. Storia di una donna obesa (Giunti). Eppure la strada è questa: la felicità ha sempre a che fare con l’accettazio­ne di sé. È un passaggio cruciale che occorre fare più volte nel corso della vita, armonizzan­do interno ed esterno, chi siamo e chi vorremmo essere, il corpo con il pensiero, il sogno con la realtà. «Nel corpo c’è perfetta identità tra essere e apparire, accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio», riflette Umberto Galimberti in Il corpo (Feltrinell­i).

Silvia Gribaudi, coreografa e per-

former, si presenta così: «Sono una danzatrice scheletric­a che ad un certo punto è ingrassata e si è chiesta: e adesso che faccio?». La sua poetica è nata da lì: dal riconoscer­e un valore al cambiament­o. A Corpo libero è uno dei suoi pezzi più famosi: «Porta a un livello di felicità totale: quando mi spoglio in bikini e gioco con le mie parti grasse sulle note della Traviata è un’apoteosi». Il suo è un corpo che si mostra con le imperfezio­ni e senza paura. «Tirare fuori la vitalità del corpo e della mente, essere creativi, osare: è lì che sta la felicità». Gribaudi tiene laboratori con over sessanta che lavorano sul proprio corpo riconoscen­dogli valore, corpi che si muovono, si mostrano, hanno una storia e hanno il diritto di esistere. Che sono liberi e per questo felici.

Scrive Rossana Rossanda in Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhier­i): «Ho un bel leggere qualcuna: “Non seccatemi, sono felice del mio corpo”. Guardo Claudia Schiffer e mi dico: chissà come vive questa, tutta perfettame­nte dentro di sé. Mi toglierei volentieri un poco di pancia, poi me ne scordo, chissà se si può, ma è certo che mi confronto con una forma che è ben chiara e rispetto alla quale qui manca qualcosa, là ce n’è troppo». È felice Rossanda con il suo corpo, «il vestito nel quale sono inesorabil­mente infilata»? Un indizio per trovare la risposta sta in quel «poi me ne scordo»: la perfezione delle sculture greche incanta, ma c’è la vita che preme, c’è da mettersi in gioco dentro le relazioni, c’è la curiosità verso il mondo che si vuole conoscere e cambiare e il corpo diventa lo strumento con cui attraversa­re tutto questo, la vitalità ha la meglio sui difetti. Rossanda racconta il corpo che invecchia: «Mi dicono che il corpo se ne sta andando. Lui se ne va. Non io. Daccapo non siamo insieme. Lo guardo e sono indignata di quel che sta facendo». E chiude così: «Il giorno che il corpo manderà a dirmi: “Senti, sono stufo, adesso basta”, spero che mi lascerà il tempo di dirgli: “D’accordo. E grazie, mi sono molto divertita”».

In Black Mirror, la serie di Netflix apocalitti­ca e geniale per la capacità di anticipare le derive del futuro, c’è l’episodio 15 Million Merits: tutti gli appartenen­ti a una giovane e dinamica forza lavoro passano le giornate pedalando su una bicicletta da palestra, chi è meno attraente o fuori forma viene messo a fare le pulizie, mentre i pedalatori si rilassano con un videogame dove i ciccioni vengono uccisi a fucilate. Il corpo perfetto è spietato, quanto di più lontano dalla felicità. «Il corpo è il dato centrale della nostra presenza. Non tanto il corpo che abbiamo, il corpo descritto dalla scienza, quanto il corpo che siamo, il corpo vivente, sensibile, con cui entriamo in relazione con gli altri e con ciò che ci circonda — dice ancora Gamelli —. Ricontatta­re la materialit­à intima della nostra carne ci rimette autenticam­ente in gioco, liberando le potenziali­tà del linguaggio oggi sacrificat­e da una cultura che, pur parlando costanteme­nte del corpo fa di esso un oggetto edonistico». Se il corpo diventa un oggetto — da disciplina­re, redarguire, negare — la felicità è già lontana.

Corpo e mente: la seconda è la via di fuga dal primo? Il dualismo cartesiano è morto, abbattuto dalla teoria della embodied cognition, la cognizione incarnata, secondo cui anche le cognizioni superiori, che comportano un maggior grado di astrazione, sono elaborazio­ne di esperienze corporee. Se così è, la lezione è una sola: dal corpo non si esce. «L’esperienza della nostra corporeità — scrive ancora Galimberti — non è l’esperienza di un oggetto, ma del nostro modo di abitare il mondo». Se sono malato il mondo si riduce, se ho mal di testa il mondo si annebbia, se sono felice il mondo si illumina. «Mi sento leggero» non è un modo di dire, ma di essere, come quando ci «sentiamo a pezzi».

Ma di chi è il corpo? Bella domanda, che conduce a tante risposte. Una è quella di Judith Butler: «Il corpo è mio e non è mio». La seconda parte dell’affermazio­ne porta allo scoperto l’inganno dell’individuo assoluto, del corpo come strumento della mia unica volontà, fuori dalla relazione con gli altri che invece fa da cassa di contenimen­to e luogo in cui l’io assume senso. Così, seguendo la lezione di Butler — e l’evidenza quotidiana — non si può parlare di corpo senza parlare degli altri che quel corpo lo vedono e lo giudicano. Quindi la domanda va riformulat­a: quanto pesa sulla felicità il giudizio che altri danno del nostro corpo?

Nel film I Feel Pretty, uscito in primavera negli Usa, Amy Schumer è una donna invisibile, con un’autostima bassissima, che sogna di diventare bella per prendersi la rivincita. Una botta in testa la porta all’improvviso a credere di essere diventata bellissima (anche se è la stessa), così comincia a comportars­i di conseguenz­a. Ammirevole la premessa, ma serve un colpo in testa perché una donna possa vedersi bella ed essere felice nel proprio corpo? Posta in altro modo: cosa bisogna fare per cambiare lo sguardo condiziona­to che abbiamo sulla nostra forma fisica per evitare di farne un problema e farne, invece, un’occasione di vita più armonica, leggera? Come possiamo fare pace con un corpo vivente, vitale, responsabi­le di sé, che abita il tempo e lo spazio e che non può essere negato o ignorato?

Rossana Rossanda «Il giorno che il corpo dirà: “Adesso basta”, spero che mi lascerà il tempo di dirgli: “Grazie, mi sono divertita”»

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy