Fed indipendente, Lagarde attacca Il Tesoro Usa: autonomia rispettata
Mnuchin dopo le parole di Trump sul rialzo dei tassi: nessuna pressione su Powell
Il Segretario al Tesoro, WASHINGTON Steven Mnuchin, si muove in soccorso di Donald Trump, con due correzioni di sostanza, però, su tassi di interesse e dollaro. Nei giorni scorsi il presidente americano aveva criticato apertamente il numero uno della Fed, Jerome Powell. Con due osservazioni dirette e irrituali sul piano istituzionale. Primo punto: l’aumento, sia pure graduale del costo del denaro, «può rovinare tutto quello che abbiamo fatto di buono». Secondo: questa strategia porta al rafforzamento del dollaro e quindi penalizza la competitività delle esportazioni americane.
«Ho parlato con il presidente e posso assicurare che non è sua intenzione mettere in alcun modo pressione sulla Fed o destabilizzarne l’indipendenza», ha detto Mnuchin in una conferenza stampa, tenuta ieri a margine del G20 finanziario a Buenos Aires.
Il ministro del Tesoro ha poi allargato la riflessione. Trump «ha lavorato a lungo nel mercato immobiliare, è ovvio che guardi con attenzione ai tassi di interesse». Mnuchin, pur misurando le parole, appoggia la linea seguita da Powell: la crescita economica è abbastanza robusta da sostenere il ritorno alla normalità, con tassi di interesse in grado di remunerare il capitale investito e i risparmiatori. L’atteggiamento di Trump è comprensibile, ma è quello, per così dire, «istintivo» di un imprenditore che osserva solo una parte dello scenario: grande liquidità nel sistema, possibilità per nuovi investimenti.
Mnuchin si è esposto, rassicurando i mercati, i colleghi dei 20 maggiori Paesi industrializzati presenti al vertice e anche la direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde che in mattina si era schierata, in via indiretta, a difesa di Powell: «L’indipendenza delle banche centrali è sempre importante».
C’è, però, un altro aspetto molto interessante. Donald Trump diffida di un dollaro forte. Anzi, fin dal primo giorno del suo mandato alla Casa Bianca, il presidente si chiede che cosa sia meglio per l’economia americana. Mnuchin, qui, è stato assai preciso: «Un dollaro forte riflette una forte economia Usa ed è nell’interesse di lungo periodo degli Stati Uniti». Negli ultimi mesi l’analisi di Powell non si è concentrata sul mercato dei cambi. Il rafforzamento del dollaro, tuttavia, è la logica conseguenza della sua proiezione nel medio-lungo periodo. La sequenza di un’«economia forte» prevede: consolidamento della crescita, controllo dell’inflazione intorno al 2%, creazione di posti di lavoro, progressivo incremento dei tassi. Il riflesso verso l’esterno di questo processo è proprio la quotazione della moneta. Come osserva Mnuchin: è naturale che un’economia in salute abbia una moneta forte.
Il problema è che questo schema potrebbe essere scompaginato dalla guerra commerciale scatenata dall’amministrazione di Washington. A Buenos Aires Mnuchin ha invitato gli interlocutori a «non sottovalutare» la minaccia di Trump: gli Stati Uniti potrebbero davvero imporre tariffe pesanti su tutto l’import cinese (oltre 500 miliardi di dollari, quasi un sesto di tutte le importazioni americane).
Finora Powell ha schivato la questione, rispondendo in modo generico alle domande dei cronisti, ma anche dei parlamentari nel corso delle audizioni al Congresso. E’ evidente, però, che la manipolazione dei cambi potrebbe diventare uno strumento incisivo nello scontro tra i diversi blocchi: Stati Uniti contro Unione europea e Stati Uniti contro Cina. I dati segnalano che in questi giorni Pechino ha sta avviando la svalutazione massiccia dello yuan.