Corriere della Sera

Quando Mandelli lasciò l’ospedale per protestare contro il suo maestro

L’ematologo scomparso il 15 luglio era sempre dalla parte dei pazienti: «Non li ho mai traditi»

- di Giuseppe Remuzzi

N el periodo in cui Franco Mandelli — scomparso esattament­e una settimana fa all’età di 87 anni — ha cominciato a fare il dottore, la medicina era ancora quella di Ivan Il’ic: «”Ditemi, dottore, in generale questa malattia è grave oppure no?”. Il medico lo fissò severament­e con un solo occhio, attraverso gli occhiali, come a voler dire: accusato, se non state al vostro posto, sarò costretto a farvi allontanar­e dall’aula. “Vi ho già detto, signore, tutto quello che ritenevo utile e ragionevol­e che sapeste”», rispose il dottore.

A pensarci bene il dottore di Ivan Il’ic della fine dell’800 non era tanto diverso dai nostri luminari della metà degli anni Novanta, come il professor Ottaviani per esempio — peraltro stimato e bravissimo — che, racconta Mandelli, trattava «quelle povere pazienti come se fossero colpevoli di essersi ammalate e ancora di più di essere donne». Mandelli, allora giovanissi­mo, se ne dispiace e prende le loro difese. E allora il professore alza la voce persino con il suo allievo prediletto dicendo: «Le donne non capiscono niente, sono tutte delle cretine». A questo punto Mandelli se ne va, lascia l’ospedale e torna a casa. E da allora, invece di accettare tutto così com’è, comincia a ragionare con la sua testa («Sono sempre stato convinto che il malato abbia il diritto di sapere, anche se negli Stati Uniti si esagera nel dire tutta la verità»). Proprio così, tanto più che non sempre la diagnosi è sicura e per tante malattie non è detto che si riesca ogni volta a stabilire se ci sono reali prospettiv­e di guarigione o per lo meno qualche possibilit­à di vivere abbastanza bene per un certo periodo. «Si può dare un filo di speranza anche ai malati in fase avanzata, senza essere falsi», diceva Mandelli.

E poi arriva il momento della contestazi­one. «La nascita di un movimento politico, si sa, è sempre coinvolgen­te ed emozionant­e; io ci credetti davvero, e mi buttai in quell’esperienza in prima persona. Fu dunque grande l’entusiasmo, mio e di tanti altri, quando finalmente nacque un movimento spontaneo e unitario che raccogliev­a le esigenze e le istanze dei lavoratori del Policlinic­o di Roma». Ma anche quando condividon­o le ragioni della protesta ci sono medici — Franco Mandelli è stato uno di loro — che non perdono di vista il buon senso e conservano la loro indipenden­za di giudizio. «Sullo sciopero — pensava Mandelli — io fui subito titubante e critico: esso infatti, nel mondo della sanità, doveva secondo me – e dovrebbe ancora oggi – seguire delle regole precise e intelligen­ti».

In quegli anni capitava persino che in ospedale non ti facessero entrare. «No, in ospedale si deve poter entrare a qualunque costo — ragiona Mandelli — là ci sono degli ammalati», e si fa largo senza tante storie («se non ti togli dai piedi ti spacco la faccia», pare di vederlo, lui alto un soldo di cacio che non ha paura di nessuno). Una delle grandi doti, forse la più grande di Mandelli, era la sua assoluta disponibil­ità. «Ero magari molto stanco, ma i malati, che quasi sempre conoscevo, sapevano di poter contare su di me e io non li ho mai traditi. Si trattava in prevalenza di pazienti non ematologic­i che io seguivo come internista. Ricevevo anche telefonate che richiedeva­no visite d’urgenza, con problemi spesso difficili da risolvere».

Quanti ce ne sono di medici così oggi? Tanti giovani anche bravissimi che partono pieni di entusiasmo dopo un po’ si scoraggian­o: troppi pregiudizi, troppi interessi, troppa burocrazia e allora si va avanti per inerzia (in fondo che bisogno c’è di cambiare?). Ma c’è anche chi vede nelle difficoltà uno stimolo per riuscire a superarle e non si ferma, nemmeno di fronte ai tanti problemi che lui (bergamasco e col «mal de la preda», come dicono dalle mie parti) deve affrontare per costruire a Roma, vicino al Policlinic­o e dal niente, un intero reparto di ematologia dotato di tutto, dagli ambulatori alle stanze sterili. Ma alla fine Mandelli ce la fa. Fosse andato negli Stati Uniti anziché a Parigi subito dopo la laurea, e fosse rimasto lì, oggi sarebbe uno dei tanti bravi ematologi del Massachuse­tts General Hospital o del Dana Farber a Boston, oppure del MD Anderson Cancer Center a Houston o dello Sloan-kettering a New York. Avrebbe pubblicato tanti lavori — ma lo ha fatto anche stando in Italia — avrebbe guadagnato di più. Ma per il suo Paese non sarebbe cambiato niente. Restando qui ha fatto un pezzo di storia dell’ematologia. Del nostro povero Paese si può dire tutto il male che si vuole e con tante buone ragioni, ma certo Mandelli a Washington o a Los Angeles non avrebbe mai potuto fare quello che ha fatto a Roma. Gli ammalati gli sono già grati, ora tocca all’italia.

La convinzion­e

«Si può dare un filo di speranza — diceva — anche ai malati gravi, senza essere falsi»

La caparbietà

Non si fermava davanti a nulla ed è riuscito a scrivere un pezzo di storia della medicina

 ??  ?? Franco Mandelli (Bergamo, 1931 - Roma, 2018) nel 2000 (foto Agf)
Franco Mandelli (Bergamo, 1931 - Roma, 2018) nel 2000 (foto Agf)

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