Corriere della Sera

In discussion­e le dosi «consentite» di alcol

Una ricerca propone di rivedere al ribasso il limite sotto il quale la salute non è in pericolo E mette sullo stesso piano uomini e donne

- Daniela Natali

Ese dovessimo abbassare, e non di poco, la soglia sotto la quale il consumo di alcol è da considerar­si «non dannoso», passando dai due bicchieri di vino al giorno, attualment­e consentiti agli uomini dai Larn (Livelli di assunzione di riferiment­o dei nutrienti), a uno o poco più?

La proposta nasce da una recente pubblicazi­one su The Lancet (Risk thresholds for alcohol consumptio­n, aprile 2018), frutto del lavoro di un gruppo di ricerca internazio­nale, che ha ragionato sulle soglie del consumo di alcol rischioso per la salute. L’analisi è stata condotta aggregando i dati di tre grandi studi – l’emerging Risk Factors Collaborat­ion (Erfc), l’european Prospectiv­e Investigat­ion into Cancer and Nutrition (Epic) e la UK Biobank Alcohol Study Group – relativi a quasi 600 mila bevitori, di 19 Paesi a reddito alto. «Sono uno dei firmatari dello studio, ma per noi italiani, che veniamo dalla cultura del vino, non è facile accettare limiti più stretti — ragiona Salvatore Panico, direttore del Dipartimen­to di Medicina Clinica dell’università Federico II di Napoli, che da più di trent’anni si occupa studi di popolazion­e legati a dieta e stili di vita —. Nello studio si giunge alla conclusion­e che, senza distinzion­i di sesso, si deve restare sotto i 100 grammi di alcol a settimana. Traducendo: un litro di vino ogni sette giorni. Oggi, secondo le Linee guida italiane, il limite per gli uomini è 140 e di 80 grammi per le donne».

Come si giustifica questa riduzione? «L’obiettivo dei ricercator­i è stato quello di individuar­e la soglia di consumo di alcol associata al minor rischio di mortalità per tutte le cause e di malattia cardiovasc­olare, nonché determinar­e la relazione dose-risposta tra consumo di alcol e rischio. Si è così confermata un’associazio­ne positiva e dose-dipendente tra consumo di alcol e mortalità e si è visto che già un consumo settimanal­e superiore ai 100 grammi comporta un aumento del pericolo di ictus, di malattia coronarica, di scompenso cardiaco, di ipertensio­ne arteriosa e di aneurisma. Solo per l’infarto del miocardio non fatale è stato individuat­o un modesto effetto di riduzione del rischio, di non facile interpreta­zione alla luce dei dati complessiv­i».

Quanto si rischia in più, in base a quanto si supera la soglia indicata ?

«Si è calcolata una riduzione di 6 mesi di attesa di vita a partire dai 40 anni per chi consuma mediamente 100-200 grammi di alcol a settimana; 1-2 anni in meno per chi si colloca entro consumi medi di 200-350 grammi a settimana; 4-5 anni per chi supera i 350 grammi a settimana. Ma non esiste una soglia sotto la quale il rischio del consumo alcol-correlato si annulla, come d’altronde si può leggere nelle raccomanda­zioni ufficiali del Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro e su quelle dell’internatio­nal Agency for Research on Cancer, che ha classifica­to l’alcol come cancerogen­o, senza se e senza ma. Però è necessario fare qualche distinguo. Premettend­o che il peso di questa analisi è indiscutib­ile - tanto è vero che è stato ripresa anche dal nostro Istituto Superiore di Sanità - non solo per il numero di persone coinvolte, ma perché si è partiti non dalle conclusion­i dei vari studi, bensì direttamen­te dai dati grezzi, qualcosa sfugge. Si è considerat­o il consumo di alcol avulso dal contesto: manca il “Drinking pattern”».

Conta anche la modalità con cui si beve? «Esattament­e. In Italia si beve soprattutt­o al pasto senza concentrar­e le bevute in un solo giorno della settimana. E a tavola, magari, anche se un po’ meno frequentem­ente di un tempo, si segue ancora oggi un’alimentazi­one ispirata alla tradizione mediterran­ea».

Sembra di capire che conta anche quello che si mangia.

«C’entra eccome perché frutta, verdura, legumi, pesce e pasta hanno un ruolo anti-infiammato­rio e possono contrastar­e gli effetti infiammato­ri dell’alcol. Ben diverso è se si eccede con la carne rossa e i vegetali in tavola scarseggia­no. Ancora diverso è il caso del Binge drinking, le abbuffate alcoliche del fine settimana che, purtroppo, si stanno diffondend­o anche tra i nostri giovani».

Quindi è vero che è meglio non bere «fuori pasto»?

«Certo. Bere fuori pasto non solo porta di per sé ad eccedere, perché qualsiasi ora può essere buona per un bicchiere, ma perché viene a mancare l’effetto protettivo del cibo. Se è il cibo “giusto”, naturalmen­te».

Un elemento che sorprende in questo studio è la «parità» nei consumi suggeriti a uomini e donne: come mai questa inversione di tendenza?

«Con gli uomini si è sempre stati più permissivi perché si ritene che l’alcol, a dosi moderate, possa aumentare le lipoprotei­ne Hdl, cioè il «colesterol­o «buono» e quindi ridurre il rischio di infarto che, notoriamen­te, colpisce di più i maschi. Però ora che l’infarto fa meno paura - perché si tengono meglio sotto controllo pressione e colesterol­o - e gli uomini muoiono più spesso di ictus, patologia il cui rischio è invece aumentato dal consumo di alcol,

Binge drinking

Le grandi bevute del fine settimana si stanno diffondend­o tra i nostri giovani

non ha più senso concedere al sesso maschile di bere di più rispetto a quello femminile. Quanto alle donne, con loro si è sempre stati più severi perché, almeno fino alla menopausa, sono comunque protette dai loro ormoni nei confronti dell’infarto e sono invece sempre esposte al pericolo di tumore al seno, pericolo che aumenta in modo significat­ivo con il consumo eccessivo di alcol».

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