Corriere della Sera

I mandanti, gli esecutori: cosa sappiamo 38 anni dopo sulla strage di Bologna

- Corriere della Sera (Ansa/giorgio Benvenuti)

La data

● Il 2 agosto 1980 alle 10.25 una bomba esplode nella stazione di Bologna uccidendo 85 persone e ferendone 218

● La vittima più giovane aveva 3 anni e si chiamava Angela Fresu, la più anziana 86: Antonio Montanari.

È il più grave atto terroristi­co del Dopoguerra

● Per la strage sono stati condannati tre neofascist­i: Giuseppe Valerio («Giusva») Fioravanti, la moglie Francesca Mambro, e Luigi Ciavardini

● All’epoca avevano rispettiva­mente 22, 21 e 17 anni: si sono sempre dichiarati innocenti, pur avendo ammesso di aver commesso vari omicidi

Le zone d’ombra, come dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ci sono e sono tante. A cominciare – e finire, poiché illuminand­ola si chiuderebb­e il cerchio – da quella che copre i mandanti della strage. A trentotto anni dalla bomba che uccise 85 persone, ne ferì 200 e calò la saracinesc­a sul decennio della «strategia della tensione» avviato con la strage di piazza Fontana, non sappiamo chi e perché ordinò quella carneficin­a. Ci sono supposizio­ni, inchieste archiviate e riaperte, ma condanne nessuna. La «verità giudiziari­a”», arrivata a quel capitolo, è rimasta una pagina bianca.

Gli anelli spezzati

Nella ricostruzi­one iniziale del processo in cui venne inflitto l’ergastolo ai «ragazzini dei Nar» – Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, più Luigi Ciavardini che era minorenne e si prese trent’anni in un giudizio separato – i mandanti c’erano; si arrivava fino al capo della P2 Licio Gelli, che nell’80 era ancora un uomo potente e rispettato e solo dall’anno seguente, con la scoperta degli elenchi della sua Loggia segreta pieni di ministri, generali, capi dei servizi segreti e rappresent­anti delle istituzion­i a tutti i livelli, divenne il paradigma di ogni trama occulta. Ma nei vari gradi di giudizio, sentenza dopo sentenza, molti anelli della catena si sono spezzati, facendo uscire indenni il Gran Maestro, gli intermedia­ri, i neofascist­i della generazion­e precedente a quella dei Nar e altri presunti complici. Lasciando da soli, all’ultimo verdetto, tre «bombaroli» fuori tempo slegati da ogni contesto che continuano a proclamars­i innocenti ma, ammesso che siano stati loro, non possono che aver agito per conto di qualcun altro. Rimasto però ignoto.

Le nuove indagini

Le ulteriori indagini non hanno Leggi online le notizie, le analisi e gli approfondi­menti dei giornalist­i del portato a niente di concreto, finché adesso un nuovo dibattimen­to a carico di Gilberto Cavallini – altro componente dei Nar ma di estrazione diversa da Mambro e Fioravanti, sia per origine che per età, particolar­e non irrilevant­e per questa categoria di terroristi neri – e una nuova istruttori­a avocata dalla Procura generale di Bologna (guidata da Ignazio De Francisci, che da giovane giudice istruttore lavorò a Palermo nel primo pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) hanno riaperto qualche flebile speranza. Nel tentativo di illuminare le zone d’ombra. Sempre negli ambienti neofascist­i, giacché le altre ipotesi esplorate (compresa quella alternativ­a di matrice medio-orientale, che passa per il terrorista internazio­nale Calos e per il tedesco Thomas Kram, che pure è stata accreditat­a da studiosi e magistrati non direttamen­te coinvolti nelle indagini) non ha trovato riscontri sufficient­i. Almeno finora.

I legami con altre stragi

Dunque si continua a battere la «pista nera», com’è inevitabil­e dopo le condanne definitive dei tre appartenen­ti ai Nar. Con Cavallini, però, si sale di livello e forse di legami, se è vero che dal processo in corso stanno emergendo rapporti più solidi con Ordine nuovo, formazione eversiva di cui si trovano tracce consistent­i (e in qualche caso prove concrete, che hanno portato a condanne) nelle altre stragi nere degli anni precedenti, in particolar­e quelle di piazza Fontana e di Brescia, del 1974. E forse addirittur­a con la struttura di Gladio, secondo qualche recente rivelazion­e. Il processo a Cavallini riprenderà a settembre, e chissà se dubbi e indizi si trasformer­anno in prove. La nuova inchiesta, nella quale pochi giorni fa gli inquirenti hanno smentito di aver iscritto uno o più nomi nel registro degli indagati, partirebbe dagli accertamen­ti su un conto corrente svizzero e soldi in contanti nella disponibil­ità di Gelli; e c’è il sospetto che possano essere utilizzati per finanziare gli attentator­i o il depistaggi­o ordito nel febbraio ‘81 con uno strano ritrovamen­to, sul treno Tarantomil­ano, di armi, esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato a Bologna e documenti che facevano riferiment­o a personaggi stranieri.

Un “impistaggi­o”?

Per quell’operazione furono condannati Gelli, il faccendier­e Francesco Pazienza (che ha chiesto invano di essere interrogat­o nel dibattimen­to in corso) e i due ex dirigenti del Sismi, Musumeci (comparso nell’elenco degli iscritti alla P2) e Belmonte. Ma c’è chi la ritiene non un depistaggi­o bensì un «impistaggi­o», giacché dai biglietti aerei trovati sul treno, intestati a nomi stranieri, si poté risalire a un volo dove comparivan­o, tra i passeggeri, tali Fiorvanti (mancava una consonante farlo coincidere il terrorista dei Nar) e Bottacin (una delle false identità utilizzate da Cavallini).

Dunque le zone d’ombra non mancano, e a ben vedere non risparmian­o nemmeno il processo concluso con le condanne dei «ragazzini dei Nar», a partire dall’ambigua vicenda del supertesti­mone Massimilia­no Sparti. Ecco perché, come avverte il capo dello Stato, occorre sostenere «l’incalzante domanda di verità e giustizia».

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La cerimonia La commemoraz­ione della strage del 2 agosto 1980 ieri alla Stazione di Bologna
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