IL DETECTIVE CHE HAVENDUTO SE STESSO
CVita violenta Alcol, droga e un atteggiamento violento che usa per lenire il male di vivere che lo sta svuotando da dentro
i vuole molto coraggio per far vincere il buio. Le ultime parole della puntata finale della prima stagione di «True detective» ci avevano consolato. «Se me lo chiedi, alla fine vince la luce» dice Rustin Cohle, ovvero Matthew Mcconaughey, al suo socio. Sono in ospedale, entrambi feriti. Hanno appena fatto fuori il Re Giallo, il male assoluto. Hanno appena fatto pace con se stessi, con le loro vite e i loro tormenti.
Quella notte andammo a dormire sereni, felici del fatto che anche una delle serie più belle di sempre ci suggeriva di avere speranza. Happy ending. Titoli di coda.
La seconda stagione comincia con un distico di segno completamente opposto. «Abbiamo il mondo che ci meritiamo». «True detective 2» sarà un fallimento epocale. Fin da subito. Per il riflesso pavloviano di svilire tutto quel che segue un capolavoro, per una trama all’apparenza incomprensibile. Forse anche per una notevole quantità di personaggi alle prese con il dolore, quello che viene da dentro, dall’anima.
A Vinci, immaginaria città in una California molto lontana da Hollywood e dal sogno americano, c’è un sacco di gente che sta male. E nessuno sta peggio del detective Ray Velcoro. Non ha più niente, a cui aggrapparsi e a cui credere. I dubbi sulla paternità e il prezzo pagato per la violenta rappresaglia sullo stupratore della moglie minano anche la sua unica certezza, l’amore per il figlio Chad.
È un poliziotto che ha venduto se stesso, che per inseguire i suoi demoni ha stretto un patto con il boss mafioso Frank Semyon. Alcol, droga, e un temperamento violento che usa per lenire il proprio male di vivere che lo sta svuotando da dentro. Nient’altro.
Con le nocche incrostate di sangue poggiate sul tavolino del pub, è un personaggio che ha perso ogni indipendenza, che deve combattere con se stesso e con il suo lavoro.
Velcoro è un agnello sacrificale privato di ogni innocenza. Non è solo la faccia sempre dolente di Colin Farrell a dirci che morirà. Lo sappiamo fin dall’inizio, dalle prime scene della terza puntata, quando glielo ricorda in sogno il padre poliziotto. «Ti vedo che corri nella foresta e degli uomini ti inseguono, e gli alberi sono come giganti, e quegli uomini ti raggiungono, e ti uccidono, figlio mio».
È il magnete della sconfitta, la calamita che per inerzia raduna intorno a sé una serie di personaggi imperfetti e segnati dal loro lato oscuro, nati per non essere eroi, che proveranno a diventarlo fino all’inevitabile sconfitta personale e collettiva dell’ultima puntata, non a caso intitolata «Omega station», a rappresentare la fine di tutto e la vittoria definitiva del mondo che abbiamo rovinato con la corruzione e la cupidigia.
Sono passati tre anni e decine di altre visioni e innamoramenti seriali da quell’estate in cui Ray Velcoro e «True detective 2» andarono incontro al loro destino di figli indegni. Ma ogni tanto capita ancora di pensarci. Lo sgomento che si prova quando le cose vanno a finire come spesso accade, ovvero nel peggior modo possibile, è una sensazione che va
sempre oltre la fine di un film o di una serie televisiva.
Quella sensazione di ingiustizia ti resta dentro. Ma così va la vita, lo sappiamo che i film non sono solo la vita alla quale viene tagliata la parte noiosa, così disse Hitchcock, ma anche le parti brutte e più dolorose.
Lo abbiamo già incontrato, un tipo come lui. I suoi occhi riflettono la stessa rassegnazione esistenziale dell’investigatore privato Jack Gittes/jack Nicholson, «lascia perdere Jack, è Chinatown», del detective Harry Moseby nello stupendo «Bersaglio di notte», dell’harry Caul de «La conversazione».
Sono i figli del cinema americano del dopo Watergate, quello della disillusione, del ritorno a casa, della sconfitta esistenziale davanti a una società senza bussola che sembra dominata da un’unica cospirazione e dalla paranoia collettiva.
Tutta gente mai innocente del tutto, che ci prova, perché non ha altra scelta che quella, senza neppure crederci davvero, e finisce sconfitta in modo inesorabile
e definitivo.
C’è una grandiosa grandezza anche nel fallimento di «True detective 2». Sarebbe bastato scriverne un seguito, sulla stessa falsariga. Nic Pizzolatto, il suo creatore, invece ha puntato altissimo, nel tentativo di raccontare il dolore del vivere, ispirandosi alla stagione più cupa e nichilista del cinema Usa. Ai suoi personaggi, perdenti senza alcun successo, ma umani, terribilmente umani anche nella capacità di sbagliare.
Ray Velcoro è l’erede di quella stirpe, portatore insano di una solitudine individuale in una società senza luce che tradisce ogni aspettativa di umanità e giustizia, dove nessuno comunica con il prossimo. Muore senza riuscire a inviare l’ultimo messaggio vocale per il timido figlio Chad, le ultime parole di un padre a un figlio, in una serie che ha come sottotesto il tema della paternità, il peso di quel che ci portiamo dietro, che siamo stati senza esserlo.
Muore con una sola certezza. Questo è il mondo che ci meritiamo.