Il pensiero stupendo di Tortu Prendersi l’europa dello sprint
«Mi sono allenato bene sui 100 con papà e qui a Berlino si respira la storia»
L’aria condizionata BERLINO dell’aereo gli ha lasciato in regalo una tossetta secca e fastidiosa, che lo scuote a intervalli costanti. Influirà, stasera, sul rettilineo in tartan dell’olympiastadion, Piè Veloce? Risposta secca: «No».
Filippo Tortu contro il continente, nella scia dell’avo Pietro Mennea (oro nei 100 a Praga ’78), cui il 22 giugno scorso, a Madrid, ha scippato il primato italiano nello sprint (9”99). «Record a parte, è il giorno più importante della stagione: non dimentico che l’obiettivo era e resta l’europeo. Punto a migliorarmi». Basterà, per salire sul podio, contro i satanassi inglesi, francesi, turchi? La nouvelle vague va di fretta e ha la faccia di Zharnel Hughes («Accetto il ruolo di favorito»), 23 anni, nato ad Anguilla e poi trapiantato sull’isola di sua maestà non senza polemiche da parte degli sprinter autoctoni, allenato da quel Glen Mills che non sbagliò una mossa nel forgiare il talento di un tale Usain Bolt, in cima alle liste stagionali europee (9”91) a braccetto con Jimmy Vicaut, fortemente sospettato di un infortunio tenuto nascosto dalla Francia, sperando che l’enfant du pays oggi regga duecento metri: la semifinale più la finale.
Attaccato a Tortu c’è il turco taroccato Jak Ali Harvey, nato in Giamaica, segue l’altro inglese Reece Prescod, 22 anni, alto quasi quanto Bolt ma mai sceso sotto la barriera dei dieci secondi (10”04), il confine che segna l’ingresso nel territorio degli altri, come l’azzurro di El Paso (Texas) Marcel Jacobs (10”08), la concorrenza che Filippo si ritrova in casa (però non più in stanza insieme come al Golden Gala) in questa formidabile estate percorsa a razzo dai velocisti nostrani, benché l’italia nei 100 all’europeo non salga sul podio dall’era di Pierfrancesco Pavoni (argento ad Atene ’82).
È il martedì del dentro o fuori, vivere o morire. O si fa l’europa oggi o l’appuntamento con la gloria slitta al Mondiale 2019 di Doha, altro continente, altro playground, altro livello. Cinque uomini in tredici centesimi autorizzano il batticuore, ma Wonder Boy non ha i quadricipiti che tremano: «Ho ricaricato le batterie dopo Madrid, mi sono allenato bene con papà, non è vero che noi adolescenti italiani siamo tutti dei bamboccioni: abbiamo voglia di lavorare e di metterci in mostra». L’olympiastadion, dove Jesse Owens zittì Hitler e la Nazionale di Lippi la Francia, è il palcoscenico ideale. «Pista veloce, spalti impressionanti anche da vuoti, si respira la storia».
Non resta che affidarsi alla memoria della velocità e alla solita routine, allora, mentre la confraternita di amici e parenti in arrivo da Brianza (lato mamma) e Sardegna (lato papà) srotola i bandieroni. Sei superstizioso, Filippo? «Il
Da battere
Gli avversari: l’inglese Hughes, il francese Vicaut, il turco Harvey e l’azzurro Jacobs
giusto». Due riti, imprescindibili. «Pensiero stupendo» di Patty Pravo e «Pass it along» dei Chumbawamba: le ultime due tracce da ascoltare in cuffia nel riscaldamento; due saltellini, uno su una gamba e uno sull’altra, davanti al blocco prima di accucciarsi. Il gesto del pollo, che prima di ogni gara coach Salvino rivolge al figlio, a quel punto sarà già stato fatto lontano da occhi indiscreti. L’eredità di Mennea, l’europa, una particella di leggenda. Per prendersi tutto contano i dettagli.