Corriere della Sera

La città divisa in due torna come nel 1965 «Come fa l’ambulanza a venire a Ponente?»

- dal nostro inviato a Genova Marco Imarisio

Quando sarà finito lo strazio, quando anche l’ultima vittima sarà estratta dalle macerie, Genova si risveglier­à nel 1965. In un tempo dove persino qui regnava l’ottimismo, dove questa meraviglia di città era un lato del triangolo industrial­e, e per quanto grande il porto era soltanto il molo di Sampierdar­ena e poco altro, mentre sul primo tratto del Ponte Morandi in fase di collaudo venivano fatti sfilare i prototipi della Fiat 124 che l’anno seguente avrebbero invaso le strade dell’italia del boom economico.

Ma tutto intorno continua a essere l’anno di disgrazia 2018. Ore 16.30 di giovedì 16 agosto, le piazze del centro sono vuote come nei quadri metafisici di Giorgio De Chirico, che per altro aveva la madre di origini genovesi. Il giorno prima del crollo, Il Secolo XIX scriveva nelle sue pagine locali che era rimasto in città solo un abitante su cinque. E sulla strada Guido Rossa c’è un chilometro e mezzo di coda. All’uscita del porto il rettilineo del lungomare Canepa è un’illusione lunga un chilometro, traffico denso ma scorrevole. Poi arriva il tappo. Tutti fermi. Quella è l’unica via che resta per il Ponente, per raggiunger­e Corniglian­o e i quartieri sulle alture, Bolzaneto, Rivarolo, Pontedecim­o, l’altra metà di una città che da sempre era divisa in due, fino alla nascita di quel ponte. «Genova Est e Genova Ovest» dice l’urbanista Guido Musso. «Come se all’improvviso ci fosse un muro invisibile. E diciamo la verità, ci vorranno anni per riunire le due parti».

Le buone maniere insegnano che non si dovrebbero elencare cifre e numeri mentre si scava alla ricerca delle vittime. Eppure ci sono tanti modi per morire, e rischia di farlo anche la sesta città d’italia. Da fuori, è una disgrazia, una tragedia enorme, quasi di sicuro un crimine. Ma per chi è dentro, per chi a Genova ci vive, c’è una diffusa consapevol­ezza della fine, di un disastro collettivo, che inciderà sulle vite di tutti, per chissà quanto tempo. Basta arrampicar­si fino ai palazzoni popolari di Pontedecim­o, parlare con Ennio Paglieri, operaio Italsider in pensione, 76 anni, una moglie «malata e in bilico», assistenza continua e due dialisi al mese all’ospedale Galliera, che però è dall’altra parte, come il San Martino, come Villa Scassi. «E cosa succederà quando qualcuno si sentirà male qui a Ponente, se avrò un infarto, quanto ci metterà l’ambulanza ad arrivare?». Basta leggere i comunicati della Regione, che ipotizza per le urgenze di Genova Ovest il trasferime­nto dei pazienti negli ospedali di Savona e Pietra Ligure, a cinquanta e 80 chilometri di distanza.

Nel 1965 il porto era per dimensioni dieci volte più piccolo rispetto ad oggi, e dalle sue banchine usciva meno di un decimo delle merci, dei camion e dei passeggeri che ne hanno fatto uno fra i primi scali logistici d’europa. Nel 1965 non esisteva ancora il Vte, che sta per Voltri terminal Europa, progetto di fine anni Settanta, operativit­à piena dal 1992, diventato lo snodo logistico più importante del porto intorno al quale vive ormai una città intera, in senso non solo figurato. Ci lavorano 12.000 persone, 50 anni fa non arrivavano a 2.000, che diventano 70.ooo a contare l’indotto. Questo fine settimana scenderann­o dai traghetti 15.000 auto al giorno, in attesa dei grandi rientri da Marocco, Tunisia, Algeria. Auto che se dirette a Ponente, verso Torino, la Francia, non avranno più quella strada sospesa per aria che teneva insieme l’unica tangenzial­e che i genovesi abbiano mai avuto, l’autostrada, da Genova Est a Genova Aeroporto, 40 centesimi di pedaggio per due gallerie e un ponte che adesso non c’è più.

La bretella di cui si favoleggia per far passare il traffico pesante in entrata e in uscita da ovest, ovvero camion e Tir, non è altro che una deviazione lunga 80 chilometri e un’ora e venti di guida in più, ingresso dalla città a Genova Ovest, poi su fin dopo Serravalle Scrivia e di nuovo giù per la A26 Voltri-gravellona Toce, l’autostrada dei trafori che mette in comunicazi­one il porto con il resto d’italia. Le auto passeranno tutte per quella strada già congestion­ata oggi, in una città semidesert­a. Ci vorranno almeno sei mesi e parecchi collaudi per costruire una strada interna allo scalo, che corra lungo i moli. Ma è un «tappello», come dicono qui, un rattoppo come quelli che facevano sul ponte. Perché i camion che intaserann­o la città saranno molti di più. Nel disastro è passata quasi come una nota a margine la chiusura della ferrovia sepolta dalle macerie, un’arteria su cui viaggiavan­o ogni settimana 70 treni merci.

I conti si fanno subito, purtroppo. Per i primi 60 giorni dopo il disastro gli esperti di settore calcolano un danno per le attività del porto di almeno 1,5 miliardi. E nonostante le vane parole, nessuno può dire davvero come sarà l’esistenza quotidiana quando torneranno tutti, quando le fabbriche riaprirann­o e ricomincer­à la produzione. Per questo i genovesi si guardano smarriti, si chiedono cosa sarà di loro adesso che sono stati ributtati indietro in un tempo lontano. Non sono disagi, sono posti di lavoro, qualità della vita, ansia per un futuro che all’improvviso è diventato cupo. «E adesso se ti penso io muoio un po’» canta De Andrè figlio. «Se penso a te, Genova che non ti arrendi».

 ?? (Foto: Afp/studio Leoni) ?? Archivio Un’immagine scattata nel 1965, durante la costruzion­e del Ponte Morandi. Il 14 agosto ha ceduto un tratto di circa 200 metri, che passava sopra il torrente Polcevera e sopra una parte dei binari della ferrovia
(Foto: Afp/studio Leoni) Archivio Un’immagine scattata nel 1965, durante la costruzion­e del Ponte Morandi. Il 14 agosto ha ceduto un tratto di circa 200 metri, che passava sopra il torrente Polcevera e sopra una parte dei binari della ferrovia

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