Un leader che non cedeva alle suggestioni della piazza
De Gasperi era e si sentiva un figlio del popolo e lo rivendicava con fierezza. Lo fece non solo nella prima parte della sua esperienza politica, ma anche nel secondo dopoguerra. A Trento, il 20 luglio 1947 fece un riferimento diretto, cosa peraltro non frequente nella sua retorica: «Io vengo da un ceppo di contadini e mio nonno lavorava quella magra terra — che è più roccia che terra — di Sardagna e so che cosa sia il lavoro e la fatica del contadino, che cosa sia la libertà del contadino, ed i bisogni di questo infaticabile lavoratore che dopo tutti i disastri riprende il suo lavoro, che non vale solo per lui e per la sua famiglia, ma anche vale per la nazione; c’è in me un senso profondo di rispetto per questo lavoro, che deve essere la base del rinnovamento sociale».
De Gasperi, che dichiarava apertamente il suo «desiderio di democrazia diretta popolare», chiariva che essa presumeva «rispetto della libertà di opinione, rinuncia alla violenza, rinuncia a forme ostruzionistiche, affidamento al giudizio del libero popolo». Tuttavia egli sapeva quale ambiguità si nascondesse dietro la possibilità di appellarsi al popolo. È curioso infatti che proprio in questa circostanza egli citi subito un messaggio anonimo che gli era stato recapitato e che recava scritto: «Il popolo ti ringrazia per l’aumento del prezzo del pane e per le tasse spogliatrici fatte gravare su contadini e artigiani». Lo statista non si faceva certo impressionare e spiegava con pazienza non solo quanto si era fatto per la necessità di impostare una politica finanziaria che evitasse l’incubo dell’inflazione (quell’incubo che, notiamolo, la sua generazione ricordava con preoccupazione avendo visto dove aveva portato la Repubblica di Weimar), ma anche la necessità di agire per una politica credibile e creduta tanto all’interno quanto sulla scena internazionale.
Tornava così al tema del popolo che non andava adulato con «frasi sonanti o belle dizioni», perché «ho imparato che bisogna guardare innanzitutto al popolo. Quando mi parlano di partiti, io li giudico da questo punto di vista: come servono il popolo? Io non servirei nemmeno la Democrazia cristiana se non avessi la convinzione che la Democrazia cristiana vuol servire il popolo. E il popolo vuol dire: il popolo come vive organicamente nel suo Paese, nelle sue società, nei suoi focolari, nelle sue città. Non vuol dire il conglomerato posticcio improvvisato su di una piazza».
Erano parole forti quanto quelle della sostanziale conclusione del discorso. «Oggi bisogna dire che si domanda al Paese e ai cittadini di ogni partito, una disciplina non al servizio di un partito o di un uomo, cancelliere e non cancelliere, una disciplina che si chiede non per l’adesione ad un partito, ad un governo che passa, ma una disciplina che si pretende per la libertà del popolo, indipendentemente da qualunque governo e da qualunque partito».