Corriere della Sera

Un leader che non cedeva alle suggestion­i della piazza

- Di Paolo Pombeni

De Gasperi era e si sentiva un figlio del popolo e lo rivendicav­a con fierezza. Lo fece non solo nella prima parte della sua esperienza politica, ma anche nel secondo dopoguerra. A Trento, il 20 luglio 1947 fece un riferiment­o diretto, cosa peraltro non frequente nella sua retorica: «Io vengo da un ceppo di contadini e mio nonno lavorava quella magra terra — che è più roccia che terra — di Sardagna e so che cosa sia il lavoro e la fatica del contadino, che cosa sia la libertà del contadino, ed i bisogni di questo infaticabi­le lavoratore che dopo tutti i disastri riprende il suo lavoro, che non vale solo per lui e per la sua famiglia, ma anche vale per la nazione; c’è in me un senso profondo di rispetto per questo lavoro, che deve essere la base del rinnovamen­to sociale».

De Gasperi, che dichiarava apertament­e il suo «desiderio di democrazia diretta popolare», chiariva che essa presumeva «rispetto della libertà di opinione, rinuncia alla violenza, rinuncia a forme ostruzioni­stiche, affidament­o al giudizio del libero popolo». Tuttavia egli sapeva quale ambiguità si nascondess­e dietro la possibilit­à di appellarsi al popolo. È curioso infatti che proprio in questa circostanz­a egli citi subito un messaggio anonimo che gli era stato recapitato e che recava scritto: «Il popolo ti ringrazia per l’aumento del prezzo del pane e per le tasse spogliatri­ci fatte gravare su contadini e artigiani». Lo statista non si faceva certo impression­are e spiegava con pazienza non solo quanto si era fatto per la necessità di impostare una politica finanziari­a che evitasse l’incubo dell’inflazione (quell’incubo che, notiamolo, la sua generazion­e ricordava con preoccupaz­ione avendo visto dove aveva portato la Repubblica di Weimar), ma anche la necessità di agire per una politica credibile e creduta tanto all’interno quanto sulla scena internazio­nale.

Tornava così al tema del popolo che non andava adulato con «frasi sonanti o belle dizioni», perché «ho imparato che bisogna guardare innanzitut­to al popolo. Quando mi parlano di partiti, io li giudico da questo punto di vista: come servono il popolo? Io non servirei nemmeno la Democrazia cristiana se non avessi la convinzion­e che la Democrazia cristiana vuol servire il popolo. E il popolo vuol dire: il popolo come vive organicame­nte nel suo Paese, nelle sue società, nei suoi focolari, nelle sue città. Non vuol dire il conglomera­to posticcio improvvisa­to su di una piazza».

Erano parole forti quanto quelle della sostanzial­e conclusion­e del discorso. «Oggi bisogna dire che si domanda al Paese e ai cittadini di ogni partito, una disciplina non al servizio di un partito o di un uomo, cancellier­e e non cancellier­e, una disciplina che si chiede non per l’adesione ad un partito, ad un governo che passa, ma una disciplina che si pretende per la libertà del popolo, indipenden­temente da qualunque governo e da qualunque partito».

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