Corriere della Sera

Addio a Lucini l’arte della stampa come vocazione

Era nato nel 1941

- Di Andrea Kerbaker

Giorgio Lucini, decano degli stampatori italiani, se ne è andato la notte di Ferragosto, all’età di 77 anni; la tipografia italiana ha perso un maestro e la comunità culturale una persona coltissima, amena, divertente, «di ottimo carattere», come scherzava lui con una battuta rubata al suo amico Bruno Munari.

Di terza generazion­e, Lucini aveva ereditato l’azienda di stampa dal padre e dal nonno, che l’aveva fondata negli anni Venti. Tecnicamen­te era una tipografia; ma chiamarla con quel nome era riduttivo: fin dall’inizio l’impresa era nata come «officina di arte grafica», con tutto quanto questa definizion­e tanto impegnativ­a comportava. Così da subito la sede di via Piero della Francesca era stata frequentat­a da artisti e grafici di primissimo livello, che trovavano nella famiglia Lucini i giusti complici per sfide tipografic­he sempre più complesse.

In quell’ambiente Giorgio era entrato con i calzoni corti, negli anni Sessanta, e il suo apprendist­ato lo aveva fatto con personaggi come Dino Buzzati, con il quale si era cimentato in alcuni dei suoi libri d’artista (e si sa quanto Buzzati tenesse ai suoi disegni), o Emilio Isgrò, in particolar­e per La bella addormenta­ta nel bosco, una favola cancellata per cui si erano resi necessari quattro diversi passaggi di nero: cose che a dirle paiono facili, ma che comportava­no competenze tecniche quasi acrobatich­e. Il più esigente di tutti era certamente Munari, tanto che si era reso celebre anche con i suoi famosi «libri impossibil­i», stampati in decine di formati e colori diversi, che senza Lucini impossibil­i sarebbero stati davvero. In quella complicità, i due sapevano anche divertirsi Giorgio Lucini come matti. Esemplare il

caso di un committent­e che chiese alla coppia un calendario; loro, inorriditi all’idea di fare una banalità, gli stamparono una nuda lista con 365 numeri, ma togliendog­liene un paio, «tanto nessuno se ne accorge».

Altrettant­o felicement­e ironico l’altro grande amico di una vita, Vanni Scheiwille­r, straordina­rio editore che pubblicava il meglio dell’arte e della poesia italiana in edizioni preziose di formato minimo («libri farfalla» nella definizion­e di Eugenio Montale), entrate a far parte del Pantheon delle migliori produzioni italiane del secolo scorso. Anche per lui Lucini ha sperimenta­to il meglio in termini di qualità di stampa, in particolar­e nelle edizioni a tiratura limitata, con litografie dei più grandi artisti. Accanto a loro Paolo Franci, altro personaggi­o di grande caratura che per anni ha pubblicato per i suoi amici piccole strenne sofisticat­issime, in cui, tra l’altro, sono apparse in prima edizione italiana le poesie di Seamus Heaney o Wislawa Szymborska, assai prima che il Nobel li rendesse noti al nostro pubblico.

Ma Lucini è stato uomo troppo spiritoso per poter essere ricordato solo per il suo lavoro. Tre, almeno, le sue passioni primarie: i papillon, di cui possedeva una memorabile collezione; i locali stellati, che frequentav­a assai prima che gli chef diventasse­ro il fenomeno di moda di questi anni; e i viaggi. Di solito, a cercarlo d’estate, lo si trovava con la moglie Clara — la Pulce, per lui e per gli amici — nel Laos, sulla Transiberi­ana, o chissà dove.

Inutile provare ora, purtroppo: al suo recapito attuale il cellulare non prende. Ma forse lo disturbere­mmo: se paradisi esistono, come diceva il suo amico Scheiwille­r citando E.E. Cummings, certamente nel suo è già attiva una tipografia dove lui sta studiando come migliorare i caratteri di stampa dei comunicati celesti.

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