Corriere della Sera

Madri, figli, figure reclinate Il credo estetico di Henry Moore

In Francia, a Landerneau e Brest, la retrospett­iva dello scultore inglese con 120 opere e 80 disegni

- di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Sullo sfondo del fiume bretone Élorn, a Landerneau, le figure sdraiate di Henry Moore (1898-1986) vengono assorbite dal paesaggio sino a diventarne parte integrante. Come Picasso — che guardava all’arte africana (ricordate Les demoiselle­s d’avignon?) — anche il maestro inglese ha volto il suo interesse a culture extraeurop­ee. Ai chac mool messicani, per esempio: sculture della mesoameric­a precolombi­ana, che mostrano la figura umana distesa sulla schiena, appoggiata sui gomiti, con le gambe piegate e la testa alzata. Le amava a tal punto da ricrearle decine di volte. Qualcuna ha il corpo traforato — la prima esperienza, in tal senso, viene fatta da Moore in Scozia, sulle pietre di Corse Hill —, una sorta di oblò attraverso il quale l’opera si fonde con particolar­i del paesaggio, a seconda del punto da cui la si guarda.

Grandi figure allungate, viste di fronte, di spalle, sedute, all’impiedi (madri che allattano bambini), gruppi familiari (genitori col figlio in braccio), torsi in bronzo, pietra, legno che ricordano idoli cicladici, fossili e manufatti etruschi: 120 sculture di Moore (dal 1920 al 1980), di grandi e piccole dimensioni, sono distribuit­e tra Fondazione Hélène e Edouard Leclerc (Fhel) di Landerneau ed Ateliers des Capucins di Brest.

La retrospett­iva (aperta sino al 4 novembre), curata da Jean-louis Prat — commissari­o, nel 2002, della grande mostra alla Fondazione Maegth di Saintpaul-de-vence —, Christian Alandete, Sebastiano Barassi e dallo scenografo Eric Morin, tiene conto delle varie stagioni creative.

Corollario, 80 disegni preparator­i dove le linee si mischiano sino a confondere le sagome per acquistare una valenza astratta. Comprese molte immagini (1940-’41) degli sfollati sotto i bombardame­nti aerei, colti nelle gallerie della metropolit­ana londinese. In Moore i disegni hanno un’importanza fondamenta­le: una sorta di block-notes su cui egli traccia appunti di figure umane, scorci di paesaggi, prospettiv­e differenti, utilissimi nel momento in cui comincia a modellare un’opera («Un aiuto alla scultura, un mezzo per generare idee. La scultura è troppo lenta, il disegno mi serve per fermare le idee che non farei in tempo a tradurre plasticame­nte»). «Un gesto artistico primitivo», lo definisce Barassi in catalogo.

Le varie stagioni artistiche, si diceva. Anni Venti e Trenta: Moore subisce il fascino dell’arcaico, del primitivo e delle avanguardi­e (Picasso cubista, Rodin, Archipenko, Lipchitz, Brancusi, Monet e Manet, Cézanne, i surrealist­i — con i quali partecipa alla mostra londinese del 1936 —, Giacometti, ecc.). La figura umana richiama elementi naturali, ma si percepisce anche un linguaggio nuovo che saggia le possibilit­à di un certo astrattism­o, senza tuttavia abbandonar­e la forma organica. Anni Quaranta: ecco i disegni di guerra, delle miniere e delle Madonne col Bambino. La ricerca dei grandi volumi caratteriz­za gli anni Cinquanta: forme e spazio divengono complement­ari, la scultu- ra, creata per il paesaggio, diventa corpo. E viceversa. Da qui, via via si arriva alle Figure reclinate, alle maquettes. I temi — ripetuti, approfondi­ti e riproposti con varianti — si riducono a tre: madri e figli, figure sdraiate, interni ed esterni. Al centro dell’universo dello scultore resta la donna: la donna-madre, la donna-terra. La mater matuta, insomma, capace di suggestion­i familiari e remote. «Quasi tutti i miei disegni e, praticamen­te, tutte le mie sculture si basano sulla forma femminile — spiegherà l’artista inglese —. La donna ha la sorprenden­te pienezza del ventre e dei seni. La piccolezza della testa è necessaria per sottolinea­re la solidità del corpo».

A queste conclusion­i, Moore arriva dopo avere saggiato la scultura greca e romana ed avere visitato il British Museum e il Museo delle scienze naturali di Londra. Scandaglia­te le civiltà primitive e, come detto, i chac mool del Messico precolombi­ano, nel 1925 (a 27 anni) arriva in Italia con una borsa di studio. Giotto («La sua pittura è stata la maggiore opera di scultura che ho visto»), Masaccio, il tardo Michelange­lo faranno da contrappun­to alle avanguardi­e europee con le quali viene a contatto, anche se lo scalfirann­o appena. C’è anche, in qualche lavoro anni 30-40, un’eco surrealist­a. Ma è cosa di poco conto. Definito «romantico inglese», «ultima lacerazion­e ottocentes­ca fra classico e romantico», «iniziatore della via britannica alla figurazion­e novecentes­ca», Moore punta tutto sull’esistenza: «Essere artista è credere nella vita. Un simile sentimento, così profondo, può essere definito religioso. In questo senso, l’artista non ha bisogno, per vivere e creare, né di una Chiesa, né di un dogma».

Fede

Diceva: «Essere artista è credere nella vita. Un simile sentimento, così profondo, può essere definito religioso»

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Sul «quai» Henri Moore, Figura reclinata, 1964, nella cittadina bretone di Landerneau

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