La voce, un destino e quella capacità di autoironia nel film «The Blues Brothers»
D i un’artista immensa come Aretha Franklin, si può dire che la storia della sua vita e la storia della sua voce sono quasi la stessa cosa, e che raccontare l’una equivale a raccontare l’altra. È una vicenda così complessa e articolata e ricca di trasformazioni, quella della voce di Aretha, da assomigliare molto a un lungo romanzo, non privo di crisi e nuovi inizi che lo rendono anche più avvincente.
Non sono mancate periodiche «riscoperte». Ma è sempre necessario che ciò che si riscopre sia sempre stato lì, intatto nella sua grandezza. Per la mia generazione, credo che l’impatto di un episodio di The Blues Brothers sia stato fondamentale. Freedom, freedom, freedom! Nel 1980, le stelle luccicanti della disco music erano allo zenit del cosmo sonoro. Aretha non aveva ancora compiuto quarant’anni, ma era già un pezzo di storia, la reliquia di un mondo che si faceva distante, frequentato da zii e fratelli maggiori più raffinati. Col passare del tempo, Un’ampia galleria fotografica e articoli dedicati alla regina del soul Aretha Franklin su Corriere.it A sinistra, Aretha nel 1992 con il reverendo Jesse Jackson, attivista politico; a destra, con il tenore Luciano Pavarotti nel 1988 si era arrochita a causa delle sigarette. Nel film di John Landis, interpreta la moglie di Matt «Guitar» Murphy.
Assieme al marito, manda avanti una tavola calda. Quando Jake ed Elwood lo vanno a cercare per rimettere in piedi la vecchia band, Matt obbedisce al richiamo della musica, liberandosi rapidamente del grembiule. Aretha lo affronta: pensa bene a quello che fai! Ed ecco che inizia a cantare una nuova versione di Think, un successo risalente al 1968. La coreografia della scena, con le clienti della tavola calda che fanno da coro spalleggiando Aretha, e la finale partecipazione di John Belushi e Dan Aykroyd, è di una comicità irresistibile. Un’altra caratteristica della vera grandezza è la disponibilità a prendersi in giro. Il senso di quell’inno alla libertà femminile è infatti rovesciato con una scorrettezza che oggi suonerebbe scandalosa. Alla fine Matt, con la custodia della chitarra in mano, se ne va piantando in asso moglie e tavola calda.
Negli ultimi anni, Aretha si era insediata stabilmente fra i mostri sacri che, sopravvivendo al loro avventuroso secolo, si sono affacciati al nuovo millennio portando con sé quella merce sempre più rara e preziosa che in mancanza di meglio definiamo il carisma. Tra tutte le sue apparizioni pubbliche, la diretta televisiva in occasione dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, nei primi giorni del 2009, rimarrà sicuramente nella memoria come un pezzo di storia americana commovente e irripetibile.
Non sono passati nemmeno dieci anni, eppure, a ricercare le immagini di quell’evento su Internet, se ne ricava l’impressione di un’epoca remota, animata da ideali che potevano sembrare eterni, una luminosa mattina d’inverno, e che invece erano già minacciati dall’azione di minacciose forze contrarie. Aretha invecchiando divenne un monumento, ma restò una donna fragile, che aveva vissuto una vita difficile, accumulato ferite. Non prendeva Scena cult Aretha Franklin e, seduti, John Belushi (a destra) e Dan Aykroyd in una scena di «The Blues Brothers» l’aereo, e altre paure più profonde e inconfessabili potevano essere intuite nel fondo dei suoi occhi.
Ognuno in queste ore avrà pensato alla sua canzone preferita. Per quello che vale, la mia è una cover di Simon e Garfunkel, Bridge over Troubled Water. Non posso ascoltarla senza provare l’emozione indicibile che la voce di Aretha ha suscitato, almeno una volta nella vita, in milioni e milioni di persone. È sensibilità condotta all’estremo, senza paura né del dolore né della gioia, è fierezza, è umanità nel senso più pieno della parola. È una voce interamente trasformata in un destino.