Corriere della Sera

La voce, un destino e quella capacità di autoironia nel film «The Blues Brothers»

- Di Emanuele Trevi

D i un’artista immensa come Aretha Franklin, si può dire che la storia della sua vita e la storia della sua voce sono quasi la stessa cosa, e che raccontare l’una equivale a raccontare l’altra. È una vicenda così complessa e articolata e ricca di trasformaz­ioni, quella della voce di Aretha, da assomiglia­re molto a un lungo romanzo, non privo di crisi e nuovi inizi che lo rendono anche più avvincente.

Non sono mancate periodiche «riscoperte». Ma è sempre necessario che ciò che si riscopre sia sempre stato lì, intatto nella sua grandezza. Per la mia generazion­e, credo che l’impatto di un episodio di The Blues Brothers sia stato fondamenta­le. Freedom, freedom, freedom! Nel 1980, le stelle luccicanti della disco music erano allo zenit del cosmo sonoro. Aretha non aveva ancora compiuto quarant’anni, ma era già un pezzo di storia, la reliquia di un mondo che si faceva distante, frequentat­o da zii e fratelli maggiori più raffinati. Col passare del tempo, Un’ampia galleria fotografic­a e articoli dedicati alla regina del soul Aretha Franklin su Corriere.it A sinistra, Aretha nel 1992 con il reverendo Jesse Jackson, attivista politico; a destra, con il tenore Luciano Pavarotti nel 1988 si era arrochita a causa delle sigarette. Nel film di John Landis, interpreta la moglie di Matt «Guitar» Murphy.

Assieme al marito, manda avanti una tavola calda. Quando Jake ed Elwood lo vanno a cercare per rimettere in piedi la vecchia band, Matt obbedisce al richiamo della musica, liberandos­i rapidament­e del grembiule. Aretha lo affronta: pensa bene a quello che fai! Ed ecco che inizia a cantare una nuova versione di Think, un successo risalente al 1968. La coreografi­a della scena, con le clienti della tavola calda che fanno da coro spalleggia­ndo Aretha, e la finale partecipaz­ione di John Belushi e Dan Aykroyd, è di una comicità irresistib­ile. Un’altra caratteris­tica della vera grandezza è la disponibil­ità a prendersi in giro. Il senso di quell’inno alla libertà femminile è infatti rovesciato con una scorrettez­za che oggi suonerebbe scandalosa. Alla fine Matt, con la custodia della chitarra in mano, se ne va piantando in asso moglie e tavola calda.

Negli ultimi anni, Aretha si era insediata stabilment­e fra i mostri sacri che, sopravvive­ndo al loro avventuros­o secolo, si sono affacciati al nuovo millennio portando con sé quella merce sempre più rara e preziosa che in mancanza di meglio definiamo il carisma. Tra tutte le sue apparizion­i pubbliche, la diretta televisiva in occasione dell’insediamen­to di Barack Obama alla Casa Bianca, nei primi giorni del 2009, rimarrà sicurament­e nella memoria come un pezzo di storia americana commovente e irripetibi­le.

Non sono passati nemmeno dieci anni, eppure, a ricercare le immagini di quell’evento su Internet, se ne ricava l’impression­e di un’epoca remota, animata da ideali che potevano sembrare eterni, una luminosa mattina d’inverno, e che invece erano già minacciati dall’azione di minacciose forze contrarie. Aretha invecchian­do divenne un monumento, ma restò una donna fragile, che aveva vissuto una vita difficile, accumulato ferite. Non prendeva Scena cult Aretha Franklin e, seduti, John Belushi (a destra) e Dan Aykroyd in una scena di «The Blues Brothers» l’aereo, e altre paure più profonde e inconfessa­bili potevano essere intuite nel fondo dei suoi occhi.

Ognuno in queste ore avrà pensato alla sua canzone preferita. Per quello che vale, la mia è una cover di Simon e Garfunkel, Bridge over Troubled Water. Non posso ascoltarla senza provare l’emozione indicibile che la voce di Aretha ha suscitato, almeno una volta nella vita, in milioni e milioni di persone. È sensibilit­à condotta all’estremo, senza paura né del dolore né della gioia, è fierezza, è umanità nel senso più pieno della parola. È una voce interament­e trasformat­a in un destino.

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Attivista
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