«Il ponte si è piegato, poi il crollo»
Tre video privati acquisiti dalla Procura. L’ipotesi della ricostruzione di un viadotto uguale ma in acciaio Il capo degli ispettori: più cause. Ministero e Autostrade sapevano del degrado della struttura
Ci sarebbero più cause per il crollo del ponte Morandi a Genova che ha causato 43 morti. Il gigante di cemento costruito nel 1967 si è «piegato prima di cadere». Il ministero e la società Autostrade sapevano che la struttura era degradata. La Procura ha acquisito tre video che potrebbero aiutare gli inquirenti a far luce e individuare le responsabilità. Il premier Conte ha promesso agli sfollati che si farà «in fretta» per dare a tutti «una dimora». Per il futuro del ponte c’è l’ipotesi della ricostruzione di un viadotto uguale ma in acciaio.
GENOVA I tiranti del ponte di Genova avevano problemi di corrosione, umidità e distacco di pezzi di calcestruzzo. E la loro situazione era nota da tempo. Non solo agli ingegneri del Politecnico che a novembre avevano chiesto «approfondimenti e controlli» sugli stralli del cavalcavia Morandi, ma anche alle Autostrade e ai tecnici del ministero dei Trasporti. Eppure nessuno decise di chiudere o limitare il traffico sul ponte. L’inquietante particolare emerge dai verbali dell’adunata del Comitato tecnico amministrativo del ministero, riunito lo scorso primo febbraio al Provveditorato alle opere pubbliche della Liguria. Quel giorno i tecnici del ministero dovevano dare il via libera al progetto di «retrofitting» del ponte sul Polcevera, il piano appaltato ad aprile dalle Autostrade e che avrebbe (almeno nei progetti) risolto i problemi degli stralli del pilone 9, quello crollato.
E proprio la rottura dei tiranti sarebbe l’ipotesi più accreditata dietro alla tragedia del cavalcavia, ne sono convinti i tecnici della Commissione d’indagine ministeriale che stanno lavorando con i periti della Procura. Una commissione che è presieduta dal provveditore ligure Roberto Ferrazza e che vede tra i suoi membri anche il professor Antonio Brencich dell’università di Genova, colui che due anni fa aveva lanciato l’allarme sul Morandi. Entrambi facevano parte anche del Comitato tecnico amministrativo che a febbraio aveva analizzato il progetto di Autostrade e aveva dato il via libera ai lavori per quasi 25 milioni.
La commissione aveva analizzato la documentazione contenuta in quattro faldoni con i piani tecnici d’intervento e i risultati delle indagini «reflettometriche» sul ponte. Gli esami tecnici avevano evidenziato — come riportato dall’espresso — «alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo» degli stralli ed evidenziato «un lento trend di degrado dei cavi» dei piloni 9 e 10 con «quadri fessurativi più o meno estesi, presenza di umidità, fenomeni di distacchi, dilavamenti e ossidazione». Tanto che i tecnici scrivono di un grado di «ammaloramento medio oscillante tra il dieci e il venti per cento».
Uno studio analogo sui piloni incriminati, peraltro, risalirebbe già al 1979. Ma perché non vennero presi provvedimenti se gli stralli avevano ferite così evidenti? «Il comitato che presiedevo ha elaborato una relazione di 30 pagine, una valutazione approfondita e rapida vista la mole di materiale — spiega Ferrazza —. A noi spettava il compito di valutare la necessità e l’efficacia del progetto, e anzi lo abbiamo fatto in tempi veloci, proprio per consentire che i lavori partissero quanto prima». Perché non venne chiuso il ponte? «In fase di lavori sarebbe stata ridotta la portata di traffico, ma non spettava al nostro organismo decidere la chiusura del cavalcavia».
Ora Ferrazza e Brencich si trovano a far parte della commissione ispettiva che deve «indagare» su chi sapeva e non ha dato l’allarme: «Se qualcuno ritiene che per ragioni di opportunità io non debba presiedere la commissione sono pronto a farmi da parte. Ma difendo l’operato del nostro ufficio, abbiamo fatto tutto nel modo più rapido. Purtroppo il tempo non ci ha dato ragione».