SOGNANDO LA CALIFORNIA E UN RAGAZZO
IL MIO PERSONAGGIO PREFERITO Sono gli anni Novanta e un telefilm per la prima volta ha come protagonisti degli adolescenti Lui è sicuro di sé, protettivo, amico di tutti, serio, generoso, impegnato È così che il buon Brandon ha battuto anche il tenebroso
IIl messaggio
Quei personaggi lontani ci insegnavano come comportarci di fronte a problemi e situazioni simili a quelle che vivevamo
n effetti non ho idea del perché, quella mattina di novembre del 1992, tutti noi bambini della scuola elementare di San Felice del Benaco — meno di 3.500 abitanti sul lago di Garda, turisti esclusi —, avessimo visto la prima puntata di «Beverly Hills 90210».
Sarà che c’erano pochi canali e l’antenna da sistemare dopo ogni temporale al posto del digitale terrestre e la sua sterminata prateria di reti: che il telecomando potesse arrivare oltre il tasto 7 senza trovare telepromozioni di pentole o aste di gioielli era un orizzonte da fantascienza troppo lontano perfino per poterlo immaginare. Sta di fatto che, per qualche strana coincidenza, nessuno di noi si era perso quella neanche troppo piccola rivoluzione andata in onda su Italia 1: un telefilm (nel 1990 non le chiamavano ancora serie tv) in cui, per la prima volta, i protagonisti erano degli adolescenti, che avevano dei problemi da adolescenti e ne parlavano da adolescenti. Di Los Angeles, ma sempre adolescenti. E questo era bastato, da subito, per farceli sentire vicinissimi. Degli amici più grandi — nel caso della mia classe, avevamo nove anni — che ci facevano entrare di colpo nelle loro vite. Ecco, quella stessa mattina, subito dopo aver realizzato che tutti quanti, il giorno prima, eravamo stati compagni dello stesso viaggio californiano, è scattata la domanda. L’unica, naturale e irrefrenabile conseguenza di quello che avevamo visto. E cioè: «Ma a te, chi piace?».
Sostanzialmente si trattava di scegliere in quella che, di fatto, era una doppia gara a due: tra i personaggi femminili la sfida era tutta tra Kelly, ricca, snob e sofisticata e Brenda, ingenua, dolce, semplice. Tra quelli maschili, il gioco era simile: da una parte il team Dylan, lui che, molto alla James Dean, era il prototipo del tipo tenebroso, tormentato, indomito e dall’altra quello che tifava per lui, Brandon, il bravo, bravissimo ragazzo. Allora non lo sapevo, ma quella richiesta, apparentemente innocua, di schierarmi, di scegliere da che parte stare, stava in realtà definendo, subdolamente, qualcosa di più profondo.
Stava picchettando il mio inconscio con un ideale con cui, negli anni, avrei dovuto fare i conti. E io ho scelto lui, Brandon, la perfezione che non esiste.
Il perché è presto detto: ero l’unica. Tutte le bambine prima di me si erano lanciate in sperticate dichiarazioni d’amore per Dylan e dunque non potevo accodarmi. Ho deciso, scientificamente, che avrei amato Brandon e l’ho fatto. All’inizio — un paio di puntate, forse tre —, in questa mia specie di matrimonio autocombinato, ho cercato di apprezzare tutti i pregi, tutti i lati positivi di questo ragazzo che, dal gelido Minnesota, arrivava a Beverly Hills, dove i Natali si festeggiavano in costume da bagno ma con il cappello di Babbo Natale in testa. Lui, in questo mondo così diverso da quello in cui era cresciuto, si calava immediatamente con la grazia di una persona risolta: non si fingeva diverso da quello che era (la sorella gemella, Brenda, per adeguarsi al look californiano si era presto tinta i capelli di un tragico biondo: un disastro), lui rimaneva naturalmente se stesso pur scoprendo con
curiosità tutte le possibilità che gli offriva questa nuova vita.
Brandon Walsh, una specie di panda della società per quanto raro, era un ragazzo sicuro di sé. A una prima lettura poteva sembrare il contrario, che lo fosse piuttosto Dylan, duro fin dal cognome, Mckay. Invece, lui che guidava la moto e una Porsche cabrio, lui che nemmeno maggiorenne viveva già da solo, era un concentrato di turbe, nevrosi e insicurezze devastanti. Brandon no. Brandon non aveva bisogno di essere rassicurato in continuazione, perché era quello capace di leggere ogni situazione. Era la persona in grado di trovare il buono anche quando non lo vedi, l’amico che sogni di avere perché c’è sempre e ti aiuta senza farlo pesare. Non si lamentava mai, ma si dava da fare, studiando e lavorando.
Il Peach Pit, il locale in cui arrotondava facendo il cameriere, purtroppo in realtà non esiste ma è diventato comunque di culto per almeno una generazione o forse due. Brandon era l’america piccolo borghese, ma nella sua espressione più positiva. L’america che negli anni Novanta sembrava ancora così lontana, ma che ti faceva credere nel merito che viene sempre ripagato, nella fatica grazie a cui riesci a realizzare i tuoi sogni, non importa quanto grandi. Brandon ne aveva (il giornalismo era uno dei tanti) e aveva fiducia nel futuro. E poi era buono. Non voleva mai impensierire i genitori
(loro sì, soporiferi), era protettivo nei confronti della sorella, era l’amico che non ti frega ma che ha sempre consigli saggi da dare.
Eppure non era noioso, anzi. Tutti volevano passare del tempo con lui. Una specie di Richie Cunningham ripulito da quell’ingenuità un po’ tontolona e da una personalità senza dimensione. Se tra lui e Fonzie, sensatamente, non potevi avere dubbi, tra Dylan e Brandon c’era una partita che, mese dopo mese, diventava sempre più accesa proprio per la rimonta del secondo sul primo.
Brandon, ovviamente, era un attore, Jason Priestley (canadese, classe 1969). Ma questo a tutti noi che avevamo i suoi poster a grandezza naturale in camera non importava. Non erano certo gli attori a esistere nella realtà — almeno non nella nostra —, ma piuttosto quei personaggi che, senza che ce ne rendessimo bene conto, nel mezzo di quella specie di isteria collettiva che aveva generato la serie, ci insegnavano episodio dopo episodio come comportarci di fronte a problemi e situazioni che — se anche hai un Oceano di mezzo — non sono poi tanto diverse. Brandon Walsh, in particolare, ha fatto credere a milioni di ragazze e ragazzi nel mondo che, da qualche parte, esiste qualcuno pronto a dedicarsi a te con parole gentili, devozione, pazienza e infinita cura. Forse era meglio innamorarsi di Dylan.