Sulla pelle delle donne
Violenza e società Ci si preoccupa ossessivamente del colore e della nazionalità del malfattore in una logica politica tribale senza «pietas». E le donne spariscono
U n’ossessione e una crudeltà che si rinnova ad ogni atroce violenza sessuale, ultime quelle di Parma e di Menaggio, sul lago di Como: la disputa politica sul colore degli stupri, o meglio, degli stupratori. Prima ancora di rivolgere un pensiero alle vittime dello stupro, si corre con avida curiosità a scoprire l’identikit del malfattore, o del gruppo dei malfattori. Da dove viene? È italiano? È un immigrato? È bianco o nero? L’identikit serve a confermare una tesi, anzi un pregiudizio, anzi una catena di pregiudizi. Se lo stupratore è di colore, è quello che arriva a fare un immigrato preferibilmente clandestino, uno straniero, uno che infesta le nostre strade, allora l’equazione politica è chiara: ecco la prova che ci stanno invadendo, che la delinquenza è indisturbata, che la sicurezza è a rischio, che le nostre donne sono preda dei nuovi barbari, che dobbiamo buttarli fuori tutti, che l’accoglienza è una truffa. Se lo stupratore è bianco, italiano, socialmente inserito, allora è la prova che «italiani brava gente» è un’impostura e pure «prima gli italiani», che l’attentato alla sicurezza non è una peculiarità degli immigrati anzi, che l’allarmismo sugli stranieri nasconde la vera natura di noi italiani, che la guerra ai clandestini è un riflesso xenofobo. Sui social è la guerra. Se lo stupratore è italiano, fioriscono i commenti sarcastici dei pro-accoglienza, mentre i «prima gli italiani» se ne stanno in disparte, come se avessero perduto un derby. Se lo stupratore è di colore, «di origine nordafricana» come si legge nei primi dispacci di polizia, allora i pro-accoglienza tacciono e si scatenano i sovranisti anti-clandestini.
E le donne che hanno subito la violenza? Spariscono. E le vittime? Vengono messe a tacere, sopraffatte da un chiacchiericcio malmostoso e impietoso. Come se le donne violentate fossero un trofeo conquistato di volta in volta da uno dei due schieramenti. Svanisce la pietas. Tutto viene
L’equazione
Se il violentatore è un immigrato, ecco la prova che ci stanno invadendo e la sicurezza è a rischio L’ironia
Se il responsabile è un italiano, fioriscono i commenti sarcastici dei pro-accoglienza
ridotto a arma polemica, a ideologia, a guerra civile simulata sul corpo delle ragazze martirizzate. Scoprono che i violentatori sono due frequentatori di una scuola di polizia, ecco la rissa sul ministro dell’interno. Il quale ministro dell’interno, frequentatore compulsivo dei social, non esita un attimo a dare del «verme» allo stupratore di colore con precedenti penali. Ma tace quando l’aggressore, il prepotente, lo stupratore è italianissimo.
È una novità, questa feroce guerra al peggio, questa sensazione di trionfo se si scopre che il carnefice ha esattamen- te il colore della pelle che vorremmo avesse, che conferma i nostri stereotipi, che assesta un brutto colpo di immagine allo schieramento nemico. Una sensazione di trionfo che si gioca sulla pelle di chi subisce una violenza umiliante e terribile e che davvero, nel trauma dell’aggressione subita, l’ultima cosa al mondo che le interessa conoscere è la nazionalità del bruto o dei bruti che hanno agito come bestie. E dato che statisticamente è sempre possibile l’una o l’altra attribuzione etnica, questo repellente gioco al trionfo sulla pelle e sulla carne delle donne non può che ripetersi con impressionante continuità. Ed è un gioco contagioso: alzi la mano chi non si presta in silenzio, nel segreto di un semplice clic, a questo funesto gioco dell’identikit. Magari solo per prevedere le reazioni: lo stupratore è un immigrato, adesso si scatenano i «sovranisti», è un bianco, adesso i profeti dell’accoglienza faranno festa. Le donne, i loro corpi martoriati, il loro spirito umiliato, cessano di esistere. Ed è la conseguenza più grave di questa immonda corsa al «chi è» dello stupratore. Le donne violentare sono ancora più sole, strumentalizzate, rese pedine di un torneo che non avrebbero mai voluto giocare. Con tutta la sequenza di stereotipi che questa assurda guerra politico-mediatica si porta dietro, a cominciare dallo stereotipo della donna preda, delle «nostre donne» esposte al pericolo che dobbiamo difendere, in un caso, delle «nostre donne» che sono in pericolo proprio a causa di chi dovrebbe difenderle, in un altro. Siamo peggiorati anche in questo, incapaci di una solidarietà autentica, prigionieri di una logica tribale e senza pietas. E dovremmo vergognarcene.