Corriere della Sera

La relazione sull’opera e quell’inquietudi­ne dell’ingegner Morandi

- Giuseppe Pullara

ROMA Nove pagine battute a macchina, con qualche correzione a penna. È la relazione con cui Riccardo Morandi, il 25 agosto del 1967, presentava la sua «grande opera d’arte di concezione unitaria», il viadotto sul Polcevera che collegava l’autostrada Genova-savona a quella che univa il capoluogo alla Valle del Po. È una presentazi­one tecnica quella dell’ingegnere, che non concede nulla all’enfasi che potrebbe accompagna­re l’inaugurazi­one di un’infrastrut­tura di tale importanza.

Il mensile di architettu­ra Domus ha scovato il documento nei suoi archivi (lo pubblicò nel numero 459, del febbraio 1968, e da oggi sarà consultabi­le sul sito domusweb.it insieme alle foto dell’epoca, mentre un ulteriore approfondi­mento uscirà con il numero di ottobre) e ne ha concesso la visione al Corriere. La lettura delle pagine di Morandi fa immaginare il forte senso di responsabi­lità che il progettist­a provava nel presentare il suo lavoro. Sottolinea che l’opera «si inserisce entro una zona intensamen­te fabbricata con edifici civili e industrial­i». «Tutte queste esigenze — si legge — hanno condiziona­to l’impostazio­ne del progetto». La puntiglios­a descrizion­e delle procedure di costruzion­e sembrano voler tranquilli­zzare lo stesso Morandi, che si spinge a sottolinea­re la possibilit­à di usare «la tecnologia del calcestruz­zo di cemento armato e precompres­so» per opere «sempre più importanti».

Ma le criticità segnalate dal viadotto negli anni appena seguenti e le polemiche che già ne erano scaturite spinsero l’ingegnere, nove anni dopo l’inaugurazi­one, a chiedere una consulenza ad un giovane professore di Tecnica delle costruzion­i della Sapienza, di Roma. Remo Calzona, a sua volta costruttor­e di ponti (suo il progetto di quello dello Stretto) ricorda: «Morandi era molto preoccupat­o per le critiche, si mostrava turbato. Andammo a Genova, la visita al viadotto durò una mattinata. Fu constatato che l’opera pendeva ed aveva una risposta eccessiva ai carichi pesanti». Per questo in quei giorni erano al lavoro tecnici che stavano realizzand­o rinforzi. «Vidi cose che se ne avessi avuto il potere — afferma oggi il professore, 79 anni — mi avrebbero indotto a far chiudere il ponte». Segue qualche particolar­e: «Il tirante in cemento armato di Morandi era molto pesante. Per raddrizzar­ne la curvatura si produceva uno sforzo che andava a deformare l’impalcato inferiore». Calzona racconta che Morandi ascoltò con attenzione i suoi rilievi. «Si riservò di parlarne con i gestori del viadotto. Ma era tenuto fuori da ogni intervento. Soffriva di questa emarginazi­one, mi pare che se ne sentisse umiliato».

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