Più comunità, meno tribù
Il confronto con l’altro (non la chiusura) è la risposta valida alle sfide globali
Tra la fine del secolo scorso e il nostro è avvenuta una profonda rivoluzione, una silenziosa e prepotente affermazione del mondo globale. Spesso non ce ne siamo accorti come ricadute umane e antropologiche, mentre sono cambiate le proporzioni di tutto, caduti i muri dell’ambiente in cui vivevamo e siamo stati esposti a venti che venivano da lontano, da cui ci sentivamo in precedenza protetti per l’esistenza di un perimetro come orizzonte o comunità o altro. L’affermazione del mondo globale e il nuovo individualismo sono la realtà che Zygmunt Bauman descrive come La solitudine del cittadino globale.
Il problema è che, mentre le reti si andavano dissolvendo, non siamo stati capaci di prepararci alla rivoluzione antropologica ed economica indotta dalla globalizzazione. Sembrava un’evoluzione buona, su cui non era necessario negoziare. Quasi provvidenziale. E poi, come negoziare quando si è più soli? E la solitudine non è stata avvertita come un limite… I grandi movimenti sociali, anche di protesta, si sono in parte dissolti.
Forse, con l’avvento della globalizzazione, tante reti si sono dissolte perché non hanno saputo affrontarla o perché desuete, rispetto all’imporsi di nuovi orizzonti che, inizialmente, sono stati guardati con ottimismo: il mondo che sarebbe divenuto tutto democrazia e mercato, allontanando le paure della guerra fredda e le frontiere ereditate dalla storia. Era la concezione della «fine della storia» di Francis Fukuyama negli anni Novanta, poi rivista dalla stesso autore. E poi — non lo dimentichiamo per chi non è nativo digitale — la rivoluzione tecnologica ha offerto la capacità di creare nuovi legami, senza coinvolgimento diretto e fisico.
In realtà la rivoluzione globale è stata subìta, spesso inconsapevolmente: vissuta senza coglierla come un processo connesso, ma accorgendosi di qualche ricaduta qui e là, quando la nostra esistenza ci inciampava contro. L’ottimismo della globalizzazione ha poi lasciato il campo a tante paure che, da un po’ di tempo, accompagnano la donna e l’uomo globale. Oggi l’uomo e la donna hanno paura, spesso molta paura.
Mi piace l’espressione dello storico delle religioni di origine romene, Mircea Éliade, quando parla di «paura della storia» (e lo faceva con riferimento ai romeni in secoli lontani, quando l’attacco poteva venire da una parte o dall’altra di un territorio indifeso). L’uomo e la donna globali hanno paura della grande storia del pianeta mondializzato, guidata da mani invisibili, uno tsunami capace di travolgere i nostri piccoli universi, privi di protezione. La risposta securitaria alla fine non tranquillizza la paura profonda di un individuo, che si misura con fenomeni che gli appaiono troppo grandi, come le migrazioni, rappresentate come vere invasioni. Insomma la paura della storia metabolizza tutte le risposte e riapre la questione. La risposta spesso si orienta in senso verticale, come quella dei leader forti: l’io e un vertice che mi garantisca…
Rispondere alle paure dell’uomo globale vuol dire proporre un’identità che spesso si qualifica «contro», mettendo insieme elementi eterogenei. Non è fare o rifare la comunità, ma sentirsi parte di una tribù, tribù smarrita, la cui esistenza viene postulata come fosse da sempre. Così tanti individui, guardando a un leader o temendo/odiando alcune figure minacciose, si sentono tribù/popolo. Magari contro altri. Il mondo degli individui europei s’inquadra — con la politica degli uomini forti o dei populismi — in tribù, che hanno nemici da combattere o da cui difendersi, ma che spesso non significano esperienze esistenziali di legami nuovi e rassicuranti. Le nuove tribù sono realtà di esseri soli.
È ormai tramontata la visione ottimista che ispirò le tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia