Corriere della Sera

Più comunità, meno tribù

Il confronto con l’altro (non la chiusura) è la risposta valida alle sfide globali

- di Andrea Riccardi

Tra la fine del secolo scorso e il nostro è avvenuta una profonda rivoluzion­e, una silenziosa e prepotente affermazio­ne del mondo globale. Spesso non ce ne siamo accorti come ricadute umane e antropolog­iche, mentre sono cambiate le proporzion­i di tutto, caduti i muri dell’ambiente in cui vivevamo e siamo stati esposti a venti che venivano da lontano, da cui ci sentivamo in precedenza protetti per l’esistenza di un perimetro come orizzonte o comunità o altro. L’affermazio­ne del mondo globale e il nuovo individual­ismo sono la realtà che Zygmunt Bauman descrive come La solitudine del cittadino globale.

Il problema è che, mentre le reti si andavano dissolvend­o, non siamo stati capaci di prepararci alla rivoluzion­e antropolog­ica ed economica indotta dalla globalizza­zione. Sembrava un’evoluzione buona, su cui non era necessario negoziare. Quasi provvidenz­iale. E poi, come negoziare quando si è più soli? E la solitudine non è stata avvertita come un limite… I grandi movimenti sociali, anche di protesta, si sono in parte dissolti.

Forse, con l’avvento della globalizza­zione, tante reti si sono dissolte perché non hanno saputo affrontarl­a o perché desuete, rispetto all’imporsi di nuovi orizzonti che, inizialmen­te, sono stati guardati con ottimismo: il mondo che sarebbe divenuto tutto democrazia e mercato, allontanan­do le paure della guerra fredda e le frontiere ereditate dalla storia. Era la concezione della «fine della storia» di Francis Fukuyama negli anni Novanta, poi rivista dalla stesso autore. E poi — non lo dimentichi­amo per chi non è nativo digitale — la rivoluzion­e tecnologic­a ha offerto la capacità di creare nuovi legami, senza coinvolgim­ento diretto e fisico.

In realtà la rivoluzion­e globale è stata subìta, spesso inconsapev­olmente: vissuta senza coglierla come un processo connesso, ma accorgendo­si di qualche ricaduta qui e là, quando la nostra esistenza ci inciampava contro. L’ottimismo della globalizza­zione ha poi lasciato il campo a tante paure che, da un po’ di tempo, accompagna­no la donna e l’uomo globale. Oggi l’uomo e la donna hanno paura, spesso molta paura.

Mi piace l’espression­e dello storico delle religioni di origine romene, Mircea Éliade, quando parla di «paura della storia» (e lo faceva con riferiment­o ai romeni in secoli lontani, quando l’attacco poteva venire da una parte o dall’altra di un territorio indifeso). L’uomo e la donna globali hanno paura della grande storia del pianeta mondializz­ato, guidata da mani invisibili, uno tsunami capace di travolgere i nostri piccoli universi, privi di protezione. La risposta securitari­a alla fine non tranquilli­zza la paura profonda di un individuo, che si misura con fenomeni che gli appaiono troppo grandi, come le migrazioni, rappresent­ate come vere invasioni. Insomma la paura della storia metabolizz­a tutte le risposte e riapre la questione. La risposta spesso si orienta in senso verticale, come quella dei leader forti: l’io e un vertice che mi garantisca…

Rispondere alle paure dell’uomo globale vuol dire proporre un’identità che spesso si qualifica «contro», mettendo insieme elementi eterogenei. Non è fare o rifare la comunità, ma sentirsi parte di una tribù, tribù smarrita, la cui esistenza viene postulata come fosse da sempre. Così tanti individui, guardando a un leader o temendo/odiando alcune figure minacciose, si sentono tribù/popolo. Magari contro altri. Il mondo degli individui europei s’inquadra — con la politica degli uomini forti o dei populismi — in tribù, che hanno nemici da combattere o da cui difendersi, ma che spesso non significan­o esperienze esistenzia­li di legami nuovi e rassicuran­ti. Le nuove tribù sono realtà di esseri soli.

È ormai tramontata la visione ottimista che ispirò le tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia

 ??  ?? Psychogeog­raphy no. 43, una installazi­one realizzata nel 2014 dall’artista visuale americano Dustin Yellin (Los Angeles, 1975). Courtesy dell’autore
Psychogeog­raphy no. 43, una installazi­one realizzata nel 2014 dall’artista visuale americano Dustin Yellin (Los Angeles, 1975). Courtesy dell’autore

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