Corriere della Sera

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Tra i migranti in Libia «In migliaia verso l’italia»

- di Lorenzo Cremonesi

«Nessuna alternativ­a. In Somalia non si torna, in Libia impossibil­e restare. L’unica possibilit­à è partire con i trafficant­i verso le coste italiane». Ecco le testimonia­nze raccolte dai profughi sudanesi, eritrei, somali, nigeriani, ciadiani con la guerra alle porte e pronti a partire.

Vorrebbero trasformar­e l’ultimo dramma di cui sono vittime indifese nell’opportunit­à di fuga in massa verso l’italia i migranti assiepati sulle coste libiche. Sudanesi, eritrei, somali, nigeriani, ciadiani: ne abbiamo incontrati a centinaia negli ultimi due giorni raggruppat­i di fronte alle porte delle cinque sedi dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) a Tripoli.

«Il campo di detenzione governativ­o di Salahaddin otto giorni fa è stato investito in pieno dai combattime­nti tra milizie libiche alla periferia della città. Le bombe hanno cominciato a cadere vicino con intensità terrifican­te. Le guardie libiche sono fuggite. Alcuni di noi sono rimasti feriti, c’era confusione, polvere, fracasso. Così, con un gruppo di giovani siamo scappati. Ci siamo ritrovati per la strada, soli, senza un soldo, senza un posto dove mangiare o dormire», racconta Hassan Hussein, somalo 22enne. Che cosa intendono fare lui e gli altri? «Non ci sono alternativ­e. In Somalia non si torna, in Libia impossibil­e restare. L’unica possibilit­à è partire con i trafficant­i verso le coste italiane. L’occasione è unica. A causa dei combattime­nti le autorità libiche sono evaporate, non c’è polizia, non navigano i loro guardiacos­te. Ora o mai più», rispondono in coro.

Dagli uffici spogli di quello che resta il comando dei guardiacos­te confermano che manca benzina e non ci sono pezzi di ricambio o marinai. «I nostri pattugliam­enti in mare sono sospesi da sei giorni. Sappiamo che escono soltanto le unità ormeggiate nel porto di Khoms», specifica Massud Abdel Samat, ufficiale della marina libica che si occupa specificam­ente di coordinare le quattro motovedett­e donate l’anno scorso dagli italiani.

Per la ventina di operatori internazio­nali dell’unhcr che da ottobre lavorano in Libia l’attività si è fatta ancora più convulsa. Nelle ultime ore l’agenzia ha diffuso un comunicato di denuncia preoccupat­a contro nuovi casi di «stupri, rapimenti e torture» consumati ai danni di rifugiati, che sarebbero anche oggetto di abusi da parte di gruppi criminali che si travestono da personale unhcr. «Siamo in prima linea. Il nostro compito in questo momento è registrare ed accogliere tutti coloro che bussano alle nostre porte, specie se coinvolti negli ultimi combattime­nti. Una volta identifica­ti, distribuia­mo cibo e kit d’emergenza contenenti saponi per l’igiene personale, coperte, un pigiama e del cibo», ci spiega la portavoce Paola Barrachina, 34enne d’origine spagnola.

Ieri oltre 300 persone erano state processate. Ma il flusso è pressante. Di fronte alle loro porte la folla resta in attesa. La portavoce riassume la dimensione del fenomeno: «Non vediamo affatto la fine dell’emergenza. Il flusso dall’africa si è ridotto rispetto all’anno scorso. Ma non cessa. Non abbiamo alcuna idea su quanti siano i migranti in Libia. Si dice trecentomi­la, mezzo milione, persino ottocentom­ila. Ma in verità nessuno lo sa. Noi ne abbiamo registrati in tutto oltre 55.000. Ma rappresent­ano solo una percentual­e parziale delle presenze. Ci sono prigioni controllat­e dalle milizie di cui nessuno parla. Nei centri di detenzione ufficiali libici gli accusati di immigrazio­ne illegale sono compresi tra 6.000 e 8.000. Tra questi ne abbiamo attenziona­ti 4.500, perché ri-specchiano la definizion­e di rifugiati, vengono da Paesi in guerra o da situazioni in cui non possono tornare senza rischiare la vita e dunque necessitan­o di protezione internazio­nale».

Negli ultimi giorni a questa mole di lavoro si è aggiunta la necessità di assistere circa 1.800 famiglie libiche a loro volta sfollate dai quartieri contesi a Tripoli.

Il caos crescente ripropone tra l’altro la questione della precarietà di decine di migliaia di ex immigrati dall’africa sub-sahariana che da molti anni vivono e lavorano in Libia. Vi erano arrivati sin dalle aperture volute da Gheddafi nei confronti dei «fratelli africani», ma non era mai stata concessa loro la cittadinan­za. È il caso della famiglia Safi, giunta da Khartum nel 1998 e residente nel quartiere tripolino di Zein Zara. Il padre Mohammad ha 52 anni, la madre Nawaz 49 e i tre figli rispettiva­mente 8, 9 e 14. Dice Mohammad: «Non ne potevo più di stare in questo Paese. A inizio luglio avevo racimolato i 1.000 dollari necessari per pagare gli scafisti e partire alla volta dell’italia. Eravamo in 125 stipati su di un gommone. Ma dopo sei ore di navigazion­e i guardiacos­te libici ci hanno intercetta­ti e portati indietro. È stata una sciagura. Ma adesso le cose cambiano, i libici non controllan­o più le coste e gli scafisti stanno riducendo i prezzi dei viaggi». Ma lo sapete che il governo italiano sta chiudendo i porti? Risponde Nawaz: «Vorrà dire che moriremo in mare. Meglio sperare, partire, che restare intrappola­ti in Libia».

 ??  ?? Attesa Un’immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli. L’unhcr sta monitorand­o circa 55.000 migranti sul suolo libico (Ansa/zuhair Abusrewil)
Attesa Un’immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli. L’unhcr sta monitorand­o circa 55.000 migranti sul suolo libico (Ansa/zuhair Abusrewil)

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