Corriere della Sera

A testa alta

- di Alessandro D'avenia

«Perché lo avete ucciso?» chiede il magistrato. «Perché si portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato in classe. Capo d’accusa: far giocare e studiare, con l’aiuto volontario dei ragazzi di cui era professore di religione, bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su quella strada comandava. Troppo poco?

3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove, perché l’inferno poteva essere girato l’angolo. A cosa serviva la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio, gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissi­mi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettan­do loro una vita diversa da quella del «picciotto mafioso».

La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurand­o il sufficient­e benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturat­o al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del suo omicidio era andato per l’ennesima volta nei sordi uffici del Comune a sollecitar­e i permessi per la scuola, inaugurata solo 7 anni dopo la sua morte.

Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di insegnare religione. Proprio quell’estate, forse temendo qualcosa, aveva chiesto una diminuzion­e d’orario, ma il preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava combattend­o silenziosa­mente. La sua pace veniva dall’unione con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere dei meraviglio­si mosaici del duomo di Monreale. Per questo decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto alle persone, calpestand­o le loro strade e dando loro nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepisse­ro la possibilit­à di un’altra «strada». Per questo lo fecero fuori, erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso, tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno prima.

«Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini, non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più bella, sicurament­e meno facile, ma costruttiv­a, libera, vera. Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro, apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.

Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di tenebra e luce nel romanzo Ciò che inferno non è, perché ha determinat­o il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l’ennesima, archeologi­ca, commemoraz­ione di una delle tante ferite della mia città, recuperata per l’occasione nelle soffitte della retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso raggiungev­a cuore e membra come una trasfusion­e. E così se il professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»: impegnarsi per ogni vita, anche quando c’è poco da sperare o attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride. Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene comodi e la speranza la principale attività della testa, del cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera altezza: «A testa alta, dovete andare a testa alta!». Per questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per trasformar­e il loro desiderio di vita attraverso la morte, come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la vita, come mostrava lui.

A lui mi ispiro per il mio lavoro. L’uomo che sono diventato lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapev­ole, ingenuo, egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell’uomo minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell’uomo. L’ho constatato incontrand­o i ragazzi che operano oggi al Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano. Studenti delle superiori o universita­ri si impegnano per i bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con quell’uomo.

Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe. Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo, mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza intelligen­te, abbastanza creativa, abbastanza bella... Non ho trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma insoddisfa­tti della propria condizione e convinti dell’inferiorit­à delle nuove generazion­i. Ho avuto insegnanti che non leggevano una poesia “perché tanto non capireste”. Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di letteratur­a. Cercavo chi mi avrebbe abbracciat­o anche da epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagna­to nei tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo, gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo sono già: «A testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino “alibi” vuol dire letteralme­nte essere “altrove”) in un quartiere difficilis­simo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani contro ogni speranza. Ha amato lì dov’era, con lui nessuno era “sbagliato”.

La più bella definizion­e di maestro che io conosca si trova nell’incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or m’accora,/ la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m’insegnavat­e come l’uom s’etterna». Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario scolastico, gli insegnava «come l’uom s’etterna», parole che indicano l’immortalit­à dell’anima, ma in senso più ampio, la ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si rovina, ma sempre si rinnova, all’altezza del desiderio umano. Brunetto si rammarica: «figliuolo mio... s’io non fossi sì per tempo morto... dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe voluto continuare a prestare servizio, come si dice con lampante verità anche in burocrates­e scolastico, alla vita dell’allievo.

Maestro è chi riconosce «l’opera» che l’altro deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna, vera, felice. L’uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16 anni, una lezione che non dimentiche­rò, ed è la lezione che ha reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai. Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me.

Padre Puglisi ci ha insegnato a camminare in una vita più vera, libera

Uccisero Don Pino perché scardinava il sistema lavorando accanto agli altri

Educare è dare ai ragazzi il coraggio verso se stessi e il mondo

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Maestri Don Puglisi tra i ragazzini del quartiere Brancaccio a Palermo

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