Svezia, uno su 5 sceglie i sovranisti
STOCCOLMA Go, Jimmie, go? Bisognerà sfogliare ancora per un po’ la margherita gialloblù, il simbolo dei sovranisti, per sapere se gli svedesi l’amano davvero: il populista antimigranti Jimmie Akesson avanza, sì, ma non stravince. Lo vota quasi uno su cinque, che nella sempre meno tollerante Svezia è già molto. E fa il previsto balzo, dal 13 a una percentuale fra il 17 e il 19. La sua Sd, Svezia Democratica, prende il vento antitutto che spira dal resto d’europa. Ma non approda alla leadership e forse non sarà neppure secondo partito: gli eterni socialdemocratici calano intorno al 26-28 per cento, quel che si sapeva, ma la loro è in fondo una demolizione controllata. E restano pur sempre il primo simbolo del Paese, anche se i loro alleati verdi rischiano fino a notte fonda l’esclusione dal Parlamento. Ed è possibile che rimangano al governo, nonostante il peggior risultato da un secolo a questa parte.
Come in una sindrome, Stoccolma giura amore ai custodi di sempre, alle coalizioni della stabilità e dell’europeismo. Il blocco del centrosinistra cala di molto, quello di centrodestra sale un po’, e alla fine s’equivalgono: più o meno al 39 per cento ciascuno, divise dal buco nero di Jimmie. Il Riksdag è ingessato, le trattative per una maggioranza sono aperte. Dalle alchimie della politica svedese, abituata ai governi di minoranza, possono uscire una conferma dell’attuale premiership socialdemocratica, o una grande Ai seggi
Una sezione elettorale di Stoccolma. Sono circa 7,5 milioni gli svedesi aventi diritto al voto. Alle Politiche del 2014 l’affluenza era stata dell’85,8 per cento coalizione di salvezza nazionale, oppure un esecutivo di centrodestra basato sul buon risultato dei Moderati (che a tarda ora sembrano sorpassare Akesson)… Varie ed eventuali sono sempre possibili: le trattative durano anche mesi, a Stoccolma, e sul piatto c’è il buon risultato della sinistra ex comunista (favorevole, come l’estrema destra, a una Swexit dall’ue), dei cristianodemocratici, d’altre sigle che vogliono pesare. «Questo è un voto a favore del nostro welfare. E di un’idea decente della democrazia», è felice Stefan Lofven, 61 anni, il premier uscente e magari rientrante. «Il nostro risultato è un segnale a tutti», fa il contento Jimmie, arrivando nella sede del partito, aria di festa rovinata e luci soffuse e bottiglie di magnum e colori da discoteca che fanno quasi credere d’essere finiti al Jimmy’z di Montecarlo, anziché al tavolo di chi vuole sbancare la politica svedese. L’aria spavalda della campagna elettorale diventa sguardo di fatica: Jimmie prese in mano Sd a 26 anni, ragazzino che non era mai riuscito a laurearsi ma se la cavava benissimo al videopoker, quando qui comandavano ancora i neonazi e la margherita era una torcia fiammante, i militanti mettevano la camicia bruna e lo spot del partito era una vecchietta svedese travolta da una folla di donne in burka. Come tutti i leader incendiari, per non restare fuori dai giochi, Jimmie ha capito che è l’ora del pompiere. Parla poco di Swexit, perché domani aprono le Borse e questo è pur sempre il Paese dei colossi Volvo ed Electrolux, Spotify e Ikea. Ripete che «siamo conservatori sociali». Legge le congratulazioni di Salvini. E intanto aspetta le mosse degli altri. «Secondo i grandi esportatori di vino — è l’idea della scrittrice Ulrika Kärnborg —, per essere sicuri che una bottiglia funzioni nel mondo, bisogna prima che funzioni in Svezia. È il benchmark, la valutazione del consumatore medio globale. Il Paese che assegna il marchio di conformità, ai prodotti come alle idee politiche e sociali». A mezzanotte si sfoglia la margherita e si brinda lo stesso, nel quartier generale di Jimmie. Ma il giovane vinello del sovranismo sa ancora di tappo. E il vecchio vino del modello svedese non è ancora diventato aceto.