Corriere della Sera

VACCINI,

NOI E LA LIBERTÀ

- Di Giuseppe Lauria Pinter a cura di

C aro direttore, negli ultimi mesi vari articoli hanno sottolinea­to lo stato di difficoltà in cui il nostro Paese versa. Tra gli ultimi, l’editoriale di Galli della Loggia (Corriere, 9 settembre) che analizzava il declino di istituzion­i in passato determinan­ti per lo sviluppo nazionale. A togliere il fiato è l'impression­e che nulla funzioni sufficient­emente bene, rendendo quasi ovvia l’associazio­ne tra «Italia» e «disfunzion­e» nell’immaginari­o collettivo. A complicare però le cose è l’assenza di un elemento da includere nell’analisi. E cioè, noi. Dove siamo stati noi in questi ultimi tre decenni, in cui ogni cosa sembra essere cambiata in peggio? Noi insegnanti, genitori, medici, pazienti, giornalist­i, lettori, rappresent­anti e fruitori di queste decadenti istituzion­i. Sarà mai possibile cambiare questo paradigma di ineluttabi­le inefficien­za nazionale senza includere un’analisi di responsabi­lità per una volta non eterodiret­ta?

Vorrei portare un esempio: i vaccini. Perché se ne continua a discutere? Che essi abbiano debellato vaiolo, difterite, poliomieli­te e le morti da encefalite da morbillo non è materia di dibattito. Che esistano aree di minimo rischio individual­e, peraltro definite in pubblici documenti tecnici, neppure. Che possa esistere un’opposizion­e nella popolazion­e laica, sostenuta da motivazion­i di varia natura, men che meno. La storia novax inizia ben prima di questo governo. Nella seconda metà dell’800 in Inghilterr­a gruppi di obiettori ritennero i vaccini perfino «non cristiani» perché provenient­i da animali e per tutto un secolo fino ai giorni nostri nei Paesi occidental­i ribellioni alle vaccinazio­ni si sono riproposte periodicam­ente, sempre sconfitte dalla ricomparsa di drammatich­e epidemie.

Posizioni analoghe, cioè distanti dalla medicina ufficiale, sono frequenti. Chiunque ricorderà la «cura Di Bella».

Non induce forse la stessa domanda: perché se ne discuteva? I toni e le argomentaz­ioni del pubblico laico, politici inclusi, non erano diversi da quelli di oggi sui vaccini. La storia della cura del cancro, rivista oggi alla luce delle terapie personaliz­zate, ancora una volta dice che la metodologi­a scientific­a della medicina occidental­e conduce ad un allungamen­to della vita ed un migliorame­nto della sua qualità. Dunque, perché si discute in un modo così acrimonios­o di un’altra cosa — i vaccini — per la quale esistono già risposte? L’aids che uccideva il 100% dei malati quando ero studente, oggi è una patologia cronica e domani avrà un vaccino. Sarebbe oggetto di analoga discussion­e se oggi fosse già disponibil­e?

La ragione per cui, penso, se ne discute riguarda la credibilit­à dell’istituzion­e sanitaria nel suo complesso. Questo abbiamo perduto, e la faccenda è quindi ben più grave del fatto che un gruppo di persone strilli cose insensate su terapie mediche, pur occupandos­i di tutt’altro. Come venirne a capo?

Cercare di convincere gli inconvinci­bili come ogni giorno fa il prof. Burioni, anche se necessario, è forse una battaglia persa. Nel 1885, 100.000 persone scesero nelle strade di Leicester, in Gran Bretagna, per protestare contro l’obbligator­ietà del vaccino del vaiolo. Nessun argomento fu dissuasivo. Come spiegava la dr.ssa Durbach della Johns Hopkins University alcuni anni fa, la posizione no-vax, rapidament­e assorbita dalla cultura della classe operaia inglese di allora, divenne rappresent­ativa di una protesta contro una forma di tirannia politica, contribuen­do alla determinaz­ione di una identità di classe contro quella dominante. La posizione di una parte della politica e so- cietà di oggi ha radici analoghe, in una protesta contro una tirannia perpetrata senza distinzion­i da una classe privilegia­ta che soffoca i diritti e che senza sussurrare va biasimata perché corrotta. Applichiam­o questo ragionamen­to ad altre istituzion­i, scuola e magistratu­ra ad esempio, e non sarà difficile trovare analogie.

È indispensa­bile ricostruir­e questa credibilit­à, perduta ma recuperabi­le. Prima inizierà una discussion­e all’interno delle istituzion­i tra responsabi­lità individual­i e priorità, prima esse torneranno ad essere riconosciu­te come parte affidabile della società civile. Solo così torneremo a vivere in un Paese libero, dove si dissente con opinioni costruite su argomenti.

Ordinario di Neurologia Università di Milano e Fondazione IRCCS Istituto Neurologic­o «Carlo Besta»

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