VACCINI,
NOI E LA LIBERTÀ
C aro direttore, negli ultimi mesi vari articoli hanno sottolineato lo stato di difficoltà in cui il nostro Paese versa. Tra gli ultimi, l’editoriale di Galli della Loggia (Corriere, 9 settembre) che analizzava il declino di istituzioni in passato determinanti per lo sviluppo nazionale. A togliere il fiato è l'impressione che nulla funzioni sufficientemente bene, rendendo quasi ovvia l’associazione tra «Italia» e «disfunzione» nell’immaginario collettivo. A complicare però le cose è l’assenza di un elemento da includere nell’analisi. E cioè, noi. Dove siamo stati noi in questi ultimi tre decenni, in cui ogni cosa sembra essere cambiata in peggio? Noi insegnanti, genitori, medici, pazienti, giornalisti, lettori, rappresentanti e fruitori di queste decadenti istituzioni. Sarà mai possibile cambiare questo paradigma di ineluttabile inefficienza nazionale senza includere un’analisi di responsabilità per una volta non eterodiretta?
Vorrei portare un esempio: i vaccini. Perché se ne continua a discutere? Che essi abbiano debellato vaiolo, difterite, poliomielite e le morti da encefalite da morbillo non è materia di dibattito. Che esistano aree di minimo rischio individuale, peraltro definite in pubblici documenti tecnici, neppure. Che possa esistere un’opposizione nella popolazione laica, sostenuta da motivazioni di varia natura, men che meno. La storia novax inizia ben prima di questo governo. Nella seconda metà dell’800 in Inghilterra gruppi di obiettori ritennero i vaccini perfino «non cristiani» perché provenienti da animali e per tutto un secolo fino ai giorni nostri nei Paesi occidentali ribellioni alle vaccinazioni si sono riproposte periodicamente, sempre sconfitte dalla ricomparsa di drammatiche epidemie.
Posizioni analoghe, cioè distanti dalla medicina ufficiale, sono frequenti. Chiunque ricorderà la «cura Di Bella».
Non induce forse la stessa domanda: perché se ne discuteva? I toni e le argomentazioni del pubblico laico, politici inclusi, non erano diversi da quelli di oggi sui vaccini. La storia della cura del cancro, rivista oggi alla luce delle terapie personalizzate, ancora una volta dice che la metodologia scientifica della medicina occidentale conduce ad un allungamento della vita ed un miglioramento della sua qualità. Dunque, perché si discute in un modo così acrimonioso di un’altra cosa — i vaccini — per la quale esistono già risposte? L’aids che uccideva il 100% dei malati quando ero studente, oggi è una patologia cronica e domani avrà un vaccino. Sarebbe oggetto di analoga discussione se oggi fosse già disponibile?
La ragione per cui, penso, se ne discute riguarda la credibilità dell’istituzione sanitaria nel suo complesso. Questo abbiamo perduto, e la faccenda è quindi ben più grave del fatto che un gruppo di persone strilli cose insensate su terapie mediche, pur occupandosi di tutt’altro. Come venirne a capo?
Cercare di convincere gli inconvincibili come ogni giorno fa il prof. Burioni, anche se necessario, è forse una battaglia persa. Nel 1885, 100.000 persone scesero nelle strade di Leicester, in Gran Bretagna, per protestare contro l’obbligatorietà del vaccino del vaiolo. Nessun argomento fu dissuasivo. Come spiegava la dr.ssa Durbach della Johns Hopkins University alcuni anni fa, la posizione no-vax, rapidamente assorbita dalla cultura della classe operaia inglese di allora, divenne rappresentativa di una protesta contro una forma di tirannia politica, contribuendo alla determinazione di una identità di classe contro quella dominante. La posizione di una parte della politica e so- cietà di oggi ha radici analoghe, in una protesta contro una tirannia perpetrata senza distinzioni da una classe privilegiata che soffoca i diritti e che senza sussurrare va biasimata perché corrotta. Applichiamo questo ragionamento ad altre istituzioni, scuola e magistratura ad esempio, e non sarà difficile trovare analogie.
È indispensabile ricostruire questa credibilità, perduta ma recuperabile. Prima inizierà una discussione all’interno delle istituzioni tra responsabilità individuali e priorità, prima esse torneranno ad essere riconosciute come parte affidabile della società civile. Solo così torneremo a vivere in un Paese libero, dove si dissente con opinioni costruite su argomenti.
Ordinario di Neurologia Università di Milano e Fondazione IRCCS Istituto Neurologico «Carlo Besta»