Pensioni, ipotesi 36 anni di contributi
È il compromesso che potrebbe chiudere il tira e molla tra la Lega e il Tesoro che spingono verso i limiti di 35 e 38 anni per la riforma di quota 100
A conti fatti potrebbero essere 450mila lavoratori in più rispetto al sistema attuale. Ad anticipare la pensione nel 2019 con un minimo di 36 anni di contributi previdenziali. Il governo è al lavoro su un’ipotesi di riforma delle pensioni con «quota 100» da decidere con la legge di Bilancio. La percentuale dovrebbe essere del 60% per il settore privato e del 40% in quello pubblico. Al momento però sembra che l’asticella dei contributi per andare in pensione con quota 100 sia comunque fissata a 37 anni ma si lavora, soprattutto su pressione della Lega, per portarla a 36. L’esecutivo sta studiando anche la possibilità di ridurre gli anni di contributi necessari ad andare in pensione anticipata indipendentemente dall’età anagrafica. Nel 2019 i contributi previsti per uscire dal lavoro a qualsiasi età saliranno, secondo le norme attuali, a 43 anni e 3 mesi (42 anni e 3 mesi per le donne). Il governo vorrebbe ridurli anche se appare difficile fissarli a 41 anni e mezzo come ipotizzato in principio.
Applicando la formula dei 64 anni di età e 36 anni di contributi il costo aggiuntivo per le casse dello Stato sarebbe di circa 7,5 miliardi di euro. Per contenere i costi — anche per non incorrere nei paletti della Commissione europea e per non innescare una reazione negativa dei mercati sulla tenuta e sulla sostenibilità del debito pubblico — si sta ragionando su diverse ipotesi. Come il ricalcolo contributivo (sui versamenti dal 1996 in poi) per chi va in pensione con «quota 100». Significherebbe prendere un assegno più basso (nell’ordine del 1015%). Un’altra idea sarebbe quella di consentire non più di due anni di contributi figurativi agganciando «quota 100» agli scatti biennali dell’aspettativa di vita. Oppure ancora, e sarebbe la soluzione più restrittiva, limitare «quota 100» solo ad alcune categorie di lavoratori svantaggiati, sulla falsariga di quello che è avvenuto per l’ape sociale (l’anticipo previdenziale), di cui possono beneficiare a 63 anni e 30 di contributi chi è rimasto senza lavoro, gli invalidi o i lavoratori con disabili a carico.
Al netto dei ragionamenti dei tecnici del ministero del Tesoro sembra probabile l’adozione di un canale parallelo di pensionamento attraverso i fondi di categoria, frutto degli accordi tra imprese e sindacati. Uno schema già usato in alcuni settori — come il credito, le assicurazioni, i trasporti e i chimici — che consente il prepensionamento fino a cinque anni dei lavoratori in esubero. Questo canale, secondo alcune fonti, sarebbe finanziato da un contributo ad hoc da parte delle imprese, incentivato fiscalmente. Le aziende così potrebbero stimolare il ricambio generazionale delle piante organiche. Allo studio ci sarebbe un accordo quadro per la costituzione di questi fondi. Le contribuzioni sarebbero volontarie e potrebbero confluire nei 21 fondi interprofessionali già esistenti senza appesantire troppo i conti delle aziende, perché l’80% delle risorse versate resterebbe nelle loro disponibilità contabili.
Per far decollare «quota 100» anche la proposta del riscatto agevolato degli anni di università dal 1996 in poi, cioè a favore di chi ricade nel sistema contributivo. La volontà sarebbe quella di favorire la «pace contributiva», cioè di supportare l’aumento volontario della contribuzione da parte dei lavoratori. Lo si otterrebbe attraverso una sanatoria delle imprese sui contributi evasi e tramite un meccanismo di copertura dei buchi contributivi per chi ha avuto una carriera discontinua.