Una firma per i vescovi Storico accordo tra Vaticano e Cina
Il patto atteso da vent’anni: al Papa il potere di nomina Pechino si riserva il diritto «di controllo» dei nomi
L’annuncio dell’accordo fra Cina e Vaticano sulla nomina dei vescovi arriva quando il Papa è già arrivato in Lituania, un viaggio nei Paesi baltici alla periferia dell’europa con lo sguardo rivolto a Mosca. Il rapporto tra realtà millenarie ha i suoi tempi. Sono passati più di quattro secoli da quando padre Matteo Ricci, nel 1584, conquistò la fiducia del «Regno di Mezzo» disegnando un mappamondo che aveva al centro la Cina e non l’europa. Francesco aveva citato a modello la finezza del confratello che permise all’«amato popolo cinese» di vedere «il luogo dove viveva il Papa». E ora, per una simmetria della storia, il passo diplomatico forse più importante da allora viene compiuto dal primo pontefice gesuita.
Bergoglio ha seguito le trattative passo dopo passo, anni di incontri tra delegazioni a Pechino e Roma: l’ultimo si è concluso ieri mattina nella capitale cinese con le firme dei due viceministri degli Esteri, monsignor Antoine Camilleri e Wang Chao. L’accordo atteso da due decenni è definito «provvisorio», nel senso che le parti si riservano «valutazioni periodiche» ed eventuali correzioni. Il testo è segreto, ma il senso è chiaro. L’essenziale, per la Santa Sede, era arrivare ad un’unica Chiesa cattolica in Cina, a dispetto delle resistenze interne ed esterne. Lo stesso Papa invita a «superare le incomprensioni del passato anche recente tra fratelli» e il Segretario di Stato, Pietro Parolin, riassume: «Per la prima volta dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il Vescovo di Roma». Il problema da risolvere non era tanto la questione dei sette vescovi «patriottici» scomunicati dal Papa perché scelti dal regime. Avevano già chiesto perdono e ieri il Vaticano ha comunicato ufficialmente che «il Santo Padre ha deciso di riammetterli nella piena comunione»: è stata tolta la scomunica anche a un ottavo vescovo, il francescano Antonio Tu Shihua, che è scomparso il 4 gennaio 2017 ma «prima di morire aveva espresso il desiderio di essere riconciliato». Anche i confini tra chiesa «ufficiale» e chiesa «clandestina» sono sfumati da anni nella realtà quotidiana dei fedeli. La cosa più difficile, piuttosto, era trovare un compromesso sulla scelta dei pastori: da una parte la Cina riconosce di fatto il Papa come capo della Chiesa cattolica, con relativo potere di nominare i vescovi e avere l’ultima parola; dall’altra Pechino mantiene una facoltà di controllo sui nomi. Già nel 2010 il Global Times, legato al Partito
comunista, prefigurava un meccanismo intorno al quale si è lavorato: selezione dei candidati nelle diocesi, via libera del governo di Pechino e valutazione finale con diritto di veto del Papa; se i nomi non andassero bene, ricomincerebbero le consultazioni.
L’intesa è «pastorale e religiosa». Il Papa ha istituito una nuova diocesi cinese, Chengde, suffraganea di Pechino, la
Le delegazioni Bergoglio ha seguito le trattative passo dopo passo, anni di incontri tra Pechino e Roma
prima da 70 anni. Non si trattava ancora di ricomporre le relazioni diplomatiche formali, interrotte nel 1951. Però la Santa Sede spiega che l’accordo «crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale» e parla di un «auspicio condiviso» perché «favorisca un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale». La firma di ieri, fa notare il cardinale Parolin, è di «grande importanza» anche per «il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace» mentre «stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale». Da Vilnius il Papa ha esortato l’europa ad «ospitare le differenze» annientate nel Novecento dai totalitarismi nazista e sovietico, mettendo in guardia da chi oggi cerca di imporre un «modello unico» che vuole «annullare il diverso». L’unica strada resta il dialogo, il compromesso con Pechino è tutto in una frase di Parolin: «C’è bisogno di avere pastori buoni, che siano riconosciuti dal Successore di Pietro e dalle legittime autorità civili del loro Paese».