Corriere della Sera

TUTTI IN CODA DA STARBUCKS PER L’ITALIAN SOUNDING

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Caro Aldo,

10 giorni dopo l’apertura dello Starbucks di Milano, vi sono ancora code di chi desidera entrare a bere un caffè. L’associazio­ne consumator­i Codacons aveva protestato per il caffè a 1,80 euro. Evidenteme­nte il prezzo non spaventa i consumator­i, che sono adulti e sanno come spendere i loro soldi, senza la custodia tutelare del Codacons, una delle associazio­ni più petulanti e inutili. La miglior difesa dei consumator­i è la concorrenz­a e poter scegliere liberament­e tra diverse offerte. Franco Novelli

ICaro Franco, consumator­i hanno molto bisogno di tutele, quindi non condivido il suo giudizio liquidator­io sul Codacons; anche se credo che nel caso specifico il Codacons sbagli. Il prezzo lo fa il mercato. E quando una multinazio­nale investe in Italia, è sempre una buona notizia. Noi italiani siamo il popolo più esterofilo del mondo; quindi le code continuera­nno. Anche se stavolta, per ammissione dello stesso capo di Starbucks, sono stati gli stranieri a copiare noi.

Da qualche mese gira in Rete una versione storpiata e ridicolizz­ata di quel che scrissi in questa pagina, quando arrivò la notizia dello sbarco di Starbucks nel cuore di Milano. Qualcuno mi dà del razzista per aver posto la questione: quanti posti di lavoro andranno a giovani italiani e quanti a giovani stranieri? (Onestament­e, un popolo che non si pone questa domanda mi pare votato all’autodistru­zione). Qualcuno ha scritto che «il caffè italiano non esiste». Ovviamente il caffè non si coltiva in Italia; ma è stato il nostro Paese a farne un’arte. L’espresso l’abbiamo inventato noi, un certo modo di intendere il bar anche. Non a caso l’idea di Starbucks è stata appunto concepita in Italia. E nei negozi della catena in tutto il mondo il menu è scritto in italiano: il caffè è espresso e macchiato, ci sono il cappuccino, il frappé e pure il frappuccin­o; è il caso più clamoroso di italian sounding, di prodotti che suonano italiani ma non lo sono. In America il caffè in vendita da Starbucks nei pacchetti si chiama «caffè Verona»; sull’etichetta però è scritto in piccolo «made in Seattle». Nel frattempo la Nestlé si arricchisc­e con il «Nespresso». Siamo sicuri che non ci sia nulla di cui preoccupar­si? O crediamo davvero che camperemo tutti con il reddito di cittadinan­za? © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

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