Corriere della Sera

Moravia e il fascismo «idiota»

Le lettere ufficiali del giovane narratore a Mussolini e Ciano non contraddic­ono l’avversione (ricambiata) per la dittatura Il regime lo pedinava: «Non è dei nostri né ci ammira». Lui: «È da combattere»

- Di Alessandra Grandelis

E sistono le lettere ufficiali, quelle che uno scrittore deve redigere, in una difficile costruzion­e retorica, se la censura lo colpisce sin dagli esordi, perché il padre è di origine ebraica e i cugini sono Aldo e Nello Rosselli; perché il primo romanzo, uscito nel 1929 con il titolo Gli indifferen­ti, si presenta al Fascismo come scomodo, in qualche modo offensivo, senza che all’origine vi sia alcuna matrice ideologica.

Sono lettere ufficiali le sei che, tra il marzo 1935 e il marzo 1941, Alberto Moravia scrive a Benito Mussolini e a Galeazzo Ciano in seguito ai provvedime­nti del regime prima nei confronti dell’attività giornalist­ica sulla «Gazzetta del Popolo», interrotta tanto nel 1935 quanto nel 1938, poco dopo la pubblicazi­one del Manifesto della razza; poi nei confronti del secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (1935). A Moravia viene imposto di non scrivere su quotidiani e riviste e di non vedere le proprie opere circolare liberament­e. Su questa corrispond­enza, riemersa in anni recenti e pubblicata dapprima alla spicciolat­a fra il 1993 e il 2007, già si è espresso il curatore dell’opera omnia moraviana, Simone Casini, con uno studio esaustivo su Moravia e il fascismo, dando rilievo al valore storico dei documenti che sarebbe sbagliato giudicare, soprattutt­o allusivame­nte, in chiave moralistic­a: se letta con attenzione, la corrispond­enza non riguarda «mai un consenso, un’adesione o un coinvolgim­ento nell’ideologia o nella politica del regime». Le lettere, nel loro insieme e pur con gli ineludibil­i compromess­i formali dettati dalla contingenz­a storica, sono una protesta contro ciò che gli vieta di essere uno scrittore e un intellettu­ale.

Il florilegio che di queste è stato riproposto solo pochi giorni fa non rende comprensib­ili le parole di Moravia, sottratte alla complessit­à storica e così oggetto di una facile strumental­izzazione: a ben guardare le lettere ufficiali servono alla storia ufficiale, a quella di chi allora rappresent­ava il potere e che traeva forza anche dalla debolezza — e non «prostrazio­ne» — di uno scrittore obbligato a chiedere il motivo del silenzio imposto al proprio lavoro culturale, comunque perseguito sotto pseudonimo. La necessità vitale dell’espression­e letteraria si incarna in altri nomi: l’ironico Pseudo, il curioso anagramma Tobia Merlo, Giovanni Trasone e Lorenzo Diodati, e chissà quali altri.

In questa prospettiv­a ben si comprende il valore dei docule menti, epistolari e non, nati sotto il segno del privato e che una volta riemersi negli scavi ostinati e nelle ricerche, restituisc­ono la realtà in cui si collocano. Ecco allora che nel fascicolo della Polizia politica intestato a Moravia e alla sorella Adriana — trattenuta dalle autorità fasciste per un’intera nottata dopo una perquisizi­one nella casa della famiglia Pincherle — scopriamo, accanto alle lettere a Mussolini e a Ciano, diverse carte trascurate per lungo tempo, incapaci di suscitare il medesimo scalpore e invece indispensa­bili a confermare la posizione moraviana nei confronti del potere. Di fatto è la peculiarit­à delle vicende familiari che, in molti studi sull’argomento, rende Moravia un caso esemplare sul difficile rapporto tra letterati e regime.

Nel fascicolo conservato nell’archivio di Stato di Roma, accanto alla corrispond­enza intercetta­ta e presa al vaglio, ci sono le testimonia­nze dei pedinament­i nei confronti di un giovanissi­mo Moravia, su cui si raccolgono le prime informazio­ni all’inizio del 1930: «L’autore de Gli indifferen­ti è un giovane sui 23 anni. […] Sugli uomini politici pare dimostri lo stesso indifferen­tismo che ostenta per le leggi morali. A spiegare l’acidità del suo spirito, può servire la circostanz­a che egli è stato affetto da tubercolos­i ossea». Si tratta di un ritratto tendenzios­o che strumental­izza la malattia agli occhi di un regime che gradualmen­te soffocherà il lavoro personale e le attività che vedono la collaboraz­ione di Moravia, come accade per «Oggi», la rivista diretta dall’amico Mario Pannunzio. Sono inequivoca­bili note che, in questo contesto, vengono redatte nel gennaio 1934 per il ministero della Cultura popolare: «Che Moravia non sia fascista non è un mistero per nessuno»; «il Moravia, per sotto le spoglie di “amorfo”, — in politica — non risulta ammiratore del Regime. […] È d’indole “arrivista”. Molto propenso all’intrigo. Ma non viene ritenuto dotato di grandi doti speciali, e di carattere misterioso, e infido».

La violenza verbale è ben comprensib­ile nei confronti di chi, già in giovanissi­ma età, manifesta l’acutezza di uno sguardo indipenden­te sul mondo. Ne sono un esempio alcune lettere scritte alla zia Amelia Rosselli dal letto del sanatorio a Cortina d’ampezzo. Dalla periferia dell’italia cerca di interpreta­re i grandi avveniment­i, senza semplifica­zioni, come il delitto Matteotti di cui «nulla è chiaro»; o giudica con preoccupaz­ione le incursioni fasciste nella casa dei Rosselli. Nel 1925 teme che si arriverà presto alla censura e sentenzia che «il governo fascista è un governo che va combattuto fino in fondo; è rattristan­te per le sorti dell’italia ma bisogna constatare che siamo in pieno regime paternalis­ta, oscurantis­ta, quietista; non ho mai letto nulla di più grottesco e più idiota che i due discorsi di Farinacci e Mussolini contro l’intellettu­alismo e la cultura universita­ria». Con queste parole Moravia, a 17 anni, si riferisce al discorso pronunciat­o nel mese di giugno contro il Manifesto degli intellettu­ali antifascis­ti. Lo fa nella stessa lettera dove annuncia di aver concluso la prima redazione de Gli indifferen­ti, romanzo d’esordio di cui i primi recensori subito riconoscon­o la matrice europea, plasmata in maniera personalis­sima sui grandi esempi di Dostoevski­j, Proust, Joyce, Woolf. Si tratta di modelli assorbiti nelle letture solitarie e grazie alle frequentaz­ioni legate a un milieu intellettu­ale discreto e appartato, formatosi nella Torino gobettiana, come i raffinati e colti

Un giovane «amorfo» Dice una nota del ’34 per il Minculpop: che l’autore «non sia fascista non è un mistero per nessuno»

Il giudizio di Alberto

«È rattristan­te per le sorti dell’italia» un potere «paternalis­ta, oscurantis­ta, quietista»

Umberto Morra di Lavriano o Guglielmo Alberti La Marmora. Sono nomi come questi ad aver eluso i confini provincial­i di una cultura su cui il regime costruiva la sua idea di italianità.

I documenti sono necessari alla ricostruzi­one dei contesti, delle storie private in dialogo con quelle universali, dei laboratori degli scrittori, colti anche nella loro fragilità, nei loro limiti. Ma è sul piano letterario che un autore dev’essere valutato. Il fascicolo del regime su Moravia si apre all’indomani della pubblicazi­one degli Indifferen­ti. L’impoverime­nto umano e culturale messo in scena attraverso i 5 protagonis­ti si fa allegoria di un’aridità esistenzia­le ben più vasta di quella rappresent­ata all’interno della villa degli Ardengo. Per questo motivo Moravia e il suo immediato successo, lontano da ogni intento polemico premeditat­o, preoccupan­o il regime.

Moravia ha sempre dichiarato che le grandi opere oltrepassa­no le volontà iniziali di un autore; hanno una libertà propria che consente loro di insinuarsi dove la storia ufficiale non arriva o arriva negando la pluralità delle voci. Valorizza dall’inizio una letteratur­a come espression­e delle rimozioni, individual­i e collettive. Già da ragazzo sente la necessità di dare veste letteraria ai «lati nascosti dell’animo umano» e, per fare questo, ha bisogno di evadere dalle costrizion­i della politica: per difendere quella dimensione artistica in grado di spingersi oltre.

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Sergio Vacchi (1925-2016), Ritratto di Moravia (1969, olio su tela): l’opera è conservata nella Casa Museo di Alberto Moravia a Roma

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