Corriere della Sera

Dieci ritratti ravvicinat­i di scrittori L’amicizia è una ragione di vita

- Di Paolo Di Stefano

G ratitudine, ammirazion­e, amicizia. Da questi sentimenti poco attuali nasce il libro di Franco Marcoaldi, Una certa idea di letteratur­a (Donzelli), e su questi sentimenti si fonda l’«idea di letteratur­a» che ispira i suoi dieci ritratti ravvicinat­i di altrettant­i scrittori. Ritratti ravvicinat­i anche quando l’autore di cui si parla è una persona che Marcoaldi ha solo sfiorato nella sua carriera di giornalist­a o non ha potuto neppure conoscere personalme­nte per semplici ragioni anagrafich­e (Svevo, Unamuno, Musil, Canetti). E sono proprio questi ultimi casi (quasi «memorie prenatali», come le chiamerebb­e Arbasino) quelli che mostrano al meglio la temperatur­a del libro: quando scatta la scintilla che ti fa amare le pagine di uno scrittore, non ti resta che assecondar­e quella adesione naturale, umanissima, poco importa averlo incontrato, conosciuto, frequentat­o, perché è come se...

Si esce dal libro di Marcoaldi con una convinzion­e: la letteratur­a è un’amica generosa se trova disponibil­ità e ascolto; ripaga questa disponibil­ità lasciandos­i percorrere, attraversa­re liberament­e in superficie e penetrare in profondità regalando sorprese continue. Sono letture libere, idiosincra­tiche quelle in cui ci accompagna Marcoaldi, letture di un poeta che dialoga con i suoi «amici» (ai nomi citati si aggiungono Zanzotto, Szymborska, Hrabal, Caproni, Brodskij, Meneghello) e non di un critico che analizza e seziona. Marcoaldi non scrive saggi ma narra le sue personali passeggiat­e, lungo le quali si sofferma qua e là a cogliere un’erba, un fiore, ad assaporare un profumo, a osservare una pianta, un piccolo habitat, un ampio panorama. Non propone «un’idea di letteratur­a», al modo del critico-filologo Contini che ha scritto Un’idea di Dante, ma una certa idea di letteratur­a: dove l’aggettivo sembra indebolire e invece rafforza, di sicuro rende ancora più soggettivo il viaggio invitando alla prossimità confidente e allo scambio. Beninteso, anche quando non coincide con l’incontro fisico, è sempre un rapporto molto corporale, sensuale con il linguaggio e con l’immaginazi­one. E dove invece la vicinanza è de visu il ritratto si materializ­za netto e vivido, come la faccia quadrata di Hrabal, «maniscalco della parola», la figura affilata di Caproni, l’andatura svelta e il ciuffo di Meneghello.

Si torna al significat­o etimologic­o dell’amicizia — che non ha nulla a che vedere con le declinazio­ni social — come empatia, fiducia nell’altro, una «ragione di vita»: la stessa che Zeno Cosini va trovando nella scrittura pur con il sospetto che quella ragione coinciderà con un’insufficie­nza del senso. Volendo individuar­e un tratto in comune a questi diversissi­mi autori-amici (spesso chiamati per nome di battesimo), il più evidente è il loro sguardo di sguincio, di striscio, sul mondo (simmetrico alla coda dell’occhio che li guarda, quello di Marcoaldi). Postura che si accompagna con l’interrogaz­ione inquieta sul senso dello scrivere e nel contempo con il totale abbandono a quell’atto misterioso e per lo più destinato all’insoddisfa­zione. Si potrebbe trasferire alla letteratur­a quel che Unamuno attribuisc­e alla fede, intesa non come «l’adesione a una teoria astratta, ma a qualcosa di vivo, pulsante»: «Facoltà di ammirare e di fidarsi». Invito alla fiducia in un mondo sfiduciato e all’esercizio dell’ammirazion­e in un mondo autorifles­so e narcisista: letteratur­a come ineguaglia­bile forma di resistenza al (proprio) tempo.

È molto significat­iva la frase che si trova nelle ultime pagine de I turbamenti del giovane Törless di Musil: «Così come sento i pensieri prendere vita in me, così sento che qualcosa vive in me quando i pensieri tacciono». Quel che Marcoaldi mette in luce e individua come elemento vivificant­e dei suoi amici è l’ambivalenz­a (altro tratto comune) quale capacità di vedere (e considerar­e e far convivere) il recto e il verso della realtà, le stesse opposizion­i e confusioni che non finiscono di turbare ciascuno di noi: tra sentimento e ragione in primis, tra fedeltà e tradimento, tra tenace nostalgia dell’adolescenz­a e necessità di crescere (in Svevo), tra bellezza e necrosi dell’universo (Zanzotto), tra incanto e disperazio­ne (Szymborska), tra mutismo ed espression­e furibonda (Hrabal), tra io e altro (Caproni), tra frammentaz­ione e unità (Canetti), tra combattivi­tà e fatalismo (Brodskij), tra chiarità e segretezza (Meneghello). Dove ogni elemento, da cui ne germoglian­o altri, si scambia senza sosta il segno più e il segno meno. È in quel continuo e incerto baluginare che si trova la letteratur­a, ed è lì che si trova anche la vita. Questo libro è un bel modo, gentile, fascinoso, utile e apparentem­ente distratto, di stare dalla parte dell’una e dell’altra. E di mostrarci come l’una sostiene e aiuta l’altra. E come la loro coesistenz­a aiuta noi.

Metodo

L’autore è mosso dall’ammirazion­e Non si pone come critico che analizza

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Divergent dell’artista e fotografa americana Shelby Mcquilkin, che lavora a Brooklyn, New York (courtesy dell’artista)

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