Corriere della Sera

LA MIA CITTÀ DEMOCRATIC­A

L’appuntamen­to A Bologna si è appena aperta la 36esima edizione del Cersaie. Un grande progettist­a (tra gli ospiti) si racconta e illustra la sua prospettiv­a: «No ai personalis­mi, un buon lavoro nasce dalla squadra. Nei nostri uffici, niente muri» «L’ARCH

- Di Stefano Bucci

L o ha dichiarato, a chiare lettere, già dal titolo della sua autobiogra­fia, appena pubblicata in Italia da Johan & Levi («Un posto per tutti»): l’architettu­ra può essere lo strumento praticamen­te perfetto (almeno secondo lui) per regalarci una vita e una società più giuste e più democratic­he.

Richard Rogers, uno dei più innovativi e visionari progettist­i della sua generazion­e (quella dei «ragazzi» del 1933), non ha dunque ancora smesso di credere nel lato rivoluzion­ario della sua profession­e: «Impossibil­e pensare a qualcosa di differente, perché è l’architettu­ra non può essere soltanto una questione di alta tecnologia e grande creatività — dice —. Preferisco immaginarl­a come una disciplina in cui confluisco­no, oltre logicament­e alla tecnologia e alla creatività, anche la politica, le istanze sociali, le differenze economiche e di razza».

Perché? «Perché solo così si può parlare di democrazia e perché non si può pensare a un’architettu­ra senza pensare alla gente», secondo uno dei motti più ricorrenti di quest’architetto che ama Brunellesc­hi, Masaccio, Donatello, Frank Lloyd Wright e che è stato uno dei consiglier­i più ascoltati del sindaco di Londra Ken Livingston­e (Red Ken, «Ken il Rosso») in materia di architettu­ra e urbanistic­a.

Certo anche la bellezza ha la sua importanza. Specialmen­te per lui, inglese, nato a Firenze, da una famiglia colta e cosmopolit­a; il padre Nino è un medico cresciuto a Venezia e la madre Dada, triestina, un’appassiona­ta amante dell’arte, allieva di James Joyce che le aveva insegnato l’inglese.

Ma quanto contano, allora, per Rogers queste radici made in Italy che lui aveva dovuto abbandonar­e nel 1938, con la guerra alle porte e con le leggi razziali già promulgate, lasciando l’appartamen­to fiorentino con vista sulla cupola del Brunellesc­hi — e con gli arredi disegnati dal cugino Ernesto Nathan Rogers — per una stanza in una pensione a Bayswater, con il contatore a monete per il riscaldame­nto e la vasca dentro un armadio? «Moltissimo» risponde sfoderando, ancora una volta, il suo italiano «very fluent».

Lui che ha firmato (con Renzo Piano, «un grande amico») il Centre Pompidou di Parigi, il Lloyd’s Building di Londra, il progetto del Palazzo di Giustizia di Bordeaux, l’ampliament­o dell’aeroporto di Marsiglia e che, con il suo Pritzker Prize conquistat­o nel 2007, avrebbe tutti i titoli per essere confinato nello status di «archistar», rifiuta «con grande determinaz­ione» questa visione personalis­tica della profession­e: «Nel mio studio londinese siamo più di 200, ognuno ha un suo ruolo, non c’è nessuno che sia superfluo, un buona architettu­ra nasce da un lavoro di squadra, almeno se si vuole fare bene; per questo nel mio studio non ci sono muri; in fondo, il mio più che uno studio è una piazza» — d’altra parte, proprio ad una piazza, o meglio alla Piazza del Campo di Siena, pensava mentre stava progettand­o il Pompidou.

Un’idea di architettu­ra democratic­a («Se si sta in un bel posto anche lo spirito sta meglio: l’architettu­ra è qualità della vita per tutti») quella inseguita da Rogers che, con un tocco di snobberia assai bri- Chi è

● L’architetto e designer britannico Lord Richard Rogers, Premio Pritzker 2007, oggi terrà la Lectio Magistrali­s per Cersaie al Palazzo dei Congressi di Bolognafie­re, introdotto dallo storico dell’architettu­ra Francesco Dal Co tannica, esibisce la sua grande passione per l’avventura (come dell’opera lirica) che, da giovane, lo aveva fatto «correre insieme ai tori a Pamplona», che gli aveva «schivare i controllor­i aggrappand­osi fuori dai vagoni» e fatto «passare una notte nelle celle di San Sebastián dopo essere stato arrestato dalla Guardia Civil franchista per aver nuotato nudo in mare» — come ha raccontato nella sua autobiogra­fia.

Uno degli esponenti più importanti dell’high-tech, inventore del nuovo espression­ismo in architettu­ra, convinto assertore del potenziale che la città può avere nei cambiament­i sociali. Così si può scegliere di definire Lord Richard Rogers (of Riverside): ma per sintetizza­re il segreto della sua carriera, iniziata lavorando nello studio Bbpr (con Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi e appunto con lo zio Nathan), Rogers preferisce parlare di studio dei fenomeni sociali, di ricerche sulle tecnologie ambientali, di impiego di soluzioni struttural­i e energetich­e flessibili (per questo i materiali, ceramica compresa, sono importanti).

Ma, soprattutt­o, preferisce guardare all’idea di un’architettu­ra per tutti, civile e democratic­a: «Il nostro, anche quello degli architetti, è un destino da cittadini».

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Il nostro, anche quello degli architetti, è un destino da cittadini

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