LA MIA CITTÀ DEMOCRATICA
L’appuntamento A Bologna si è appena aperta la 36esima edizione del Cersaie. Un grande progettista (tra gli ospiti) si racconta e illustra la sua prospettiva: «No ai personalismi, un buon lavoro nasce dalla squadra. Nei nostri uffici, niente muri» «L’ARCH
L o ha dichiarato, a chiare lettere, già dal titolo della sua autobiografia, appena pubblicata in Italia da Johan & Levi («Un posto per tutti»): l’architettura può essere lo strumento praticamente perfetto (almeno secondo lui) per regalarci una vita e una società più giuste e più democratiche.
Richard Rogers, uno dei più innovativi e visionari progettisti della sua generazione (quella dei «ragazzi» del 1933), non ha dunque ancora smesso di credere nel lato rivoluzionario della sua professione: «Impossibile pensare a qualcosa di differente, perché è l’architettura non può essere soltanto una questione di alta tecnologia e grande creatività — dice —. Preferisco immaginarla come una disciplina in cui confluiscono, oltre logicamente alla tecnologia e alla creatività, anche la politica, le istanze sociali, le differenze economiche e di razza».
Perché? «Perché solo così si può parlare di democrazia e perché non si può pensare a un’architettura senza pensare alla gente», secondo uno dei motti più ricorrenti di quest’architetto che ama Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Frank Lloyd Wright e che è stato uno dei consiglieri più ascoltati del sindaco di Londra Ken Livingstone (Red Ken, «Ken il Rosso») in materia di architettura e urbanistica.
Certo anche la bellezza ha la sua importanza. Specialmente per lui, inglese, nato a Firenze, da una famiglia colta e cosmopolita; il padre Nino è un medico cresciuto a Venezia e la madre Dada, triestina, un’appassionata amante dell’arte, allieva di James Joyce che le aveva insegnato l’inglese.
Ma quanto contano, allora, per Rogers queste radici made in Italy che lui aveva dovuto abbandonare nel 1938, con la guerra alle porte e con le leggi razziali già promulgate, lasciando l’appartamento fiorentino con vista sulla cupola del Brunelleschi — e con gli arredi disegnati dal cugino Ernesto Nathan Rogers — per una stanza in una pensione a Bayswater, con il contatore a monete per il riscaldamento e la vasca dentro un armadio? «Moltissimo» risponde sfoderando, ancora una volta, il suo italiano «very fluent».
Lui che ha firmato (con Renzo Piano, «un grande amico») il Centre Pompidou di Parigi, il Lloyd’s Building di Londra, il progetto del Palazzo di Giustizia di Bordeaux, l’ampliamento dell’aeroporto di Marsiglia e che, con il suo Pritzker Prize conquistato nel 2007, avrebbe tutti i titoli per essere confinato nello status di «archistar», rifiuta «con grande determinazione» questa visione personalistica della professione: «Nel mio studio londinese siamo più di 200, ognuno ha un suo ruolo, non c’è nessuno che sia superfluo, un buona architettura nasce da un lavoro di squadra, almeno se si vuole fare bene; per questo nel mio studio non ci sono muri; in fondo, il mio più che uno studio è una piazza» — d’altra parte, proprio ad una piazza, o meglio alla Piazza del Campo di Siena, pensava mentre stava progettando il Pompidou.
Un’idea di architettura democratica («Se si sta in un bel posto anche lo spirito sta meglio: l’architettura è qualità della vita per tutti») quella inseguita da Rogers che, con un tocco di snobberia assai bri- Chi è
● L’architetto e designer britannico Lord Richard Rogers, Premio Pritzker 2007, oggi terrà la Lectio Magistralis per Cersaie al Palazzo dei Congressi di Bolognafiere, introdotto dallo storico dell’architettura Francesco Dal Co tannica, esibisce la sua grande passione per l’avventura (come dell’opera lirica) che, da giovane, lo aveva fatto «correre insieme ai tori a Pamplona», che gli aveva «schivare i controllori aggrappandosi fuori dai vagoni» e fatto «passare una notte nelle celle di San Sebastián dopo essere stato arrestato dalla Guardia Civil franchista per aver nuotato nudo in mare» — come ha raccontato nella sua autobiografia.
Uno degli esponenti più importanti dell’high-tech, inventore del nuovo espressionismo in architettura, convinto assertore del potenziale che la città può avere nei cambiamenti sociali. Così si può scegliere di definire Lord Richard Rogers (of Riverside): ma per sintetizzare il segreto della sua carriera, iniziata lavorando nello studio Bbpr (con Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi e appunto con lo zio Nathan), Rogers preferisce parlare di studio dei fenomeni sociali, di ricerche sulle tecnologie ambientali, di impiego di soluzioni strutturali e energetiche flessibili (per questo i materiali, ceramica compresa, sono importanti).
Ma, soprattutto, preferisce guardare all’idea di un’architettura per tutti, civile e democratica: «Il nostro, anche quello degli architetti, è un destino da cittadini».
d Nel mio studio londinese siamo più di 200, ognuno ha un ruolo
Il nostro, anche quello degli architetti, è un destino da cittadini