SOPRAVVIVERE AL GATTOPARDO
La presentazione Il maestro svela un’installazione al Sisalartplace di Palermo. E spiega: «Cancellare la parola? No, cambiare le cose» EMILIO ISGRÒ E L’OPERA SUL ROMANZO «L’ARTE FA DOMANDE ALLA POLITICA»
E milio Isgrò è nel suo studio avvolto dai suoi quadri densi di parole e figure cancellate, segno distintivo di una poetica che lo ha reso uno dei protagonisti italiani dell’arte contemporanea. Mi accoglie con la moglie Scilla, preziosa e devota collaboratrice che subito, tra una scultura e l’altra, estrae una piccola pianta: «Tocchi una foglia», dice. Come d’incanto, la foglia si ritrae. «La natura ha delle meravigliose difese — dice sorridendo Isgrò —. La pianta è chiamata “la pudica”». L’artista ha l’aria serena. In effetti, in questi ultimi anni sta vivendo un grande riconoscimento internazionale.
E non è un caso che Palermo abbia chiesto all’artista siciliano, in occasione di Manifesta12, di presentare una installazione rimasta finora inedita e che con la Sicilia ha un legame strettissimo. È una grande opera storica, del 1976, una cancellatura articolata in più elementi, dedicata al capolavoro di Tomasi di Lampedusa, dal titolo evocativo e sottilmente estraniante, proprio come può essere acutamente provocatoria l’intera ricerca dell’artista: Resurrezione e morte del Gattopardo. Così, in
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Cattive abitudini Cambiare per non cambiare è solo una attitudine degli ipocriti. E della politica politicante
un suo gioco tipico, quello del rovesciamento dei significati, il Principe di Salina, Tancredi, Angelica e Padre Pirrone, affiorano e scompaiono in questa grande installazione, fatta di pagine cancellate e che mettono in luce l’universalità del dialogo tra vita e arte, tra finzione e verità. «È la metafora della filosofia siciliana — dice Isgrò —. Non si muore mai completamente e si vive sempre a metà. Una filosofia che troviamo raccontata in tutta la letteratura siciliana, da Pirandello a Sciascia, sino allo stesso Tomasi di Lampedusa».
Per Isgrò è un’occasione per dare vita a un legame (in verità mai interrotto) con la sua terra e alimentato attraverso la fondazione del festival delle Orestiadi di Gibellina, con l’installazione della scultura Seme d’arancia per la sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto, e per ultimo, con tre sculture, collocate ai piedi dell’etna e con Autocurriculum, il libro edito da Sellerio. «Questo mio intervento a Palermo — sottolinea — vuo- riprendere quel tipo di assetto siciliano che in genere è gradito agli altri italiani. Gli italiani desiderano che la Sicilia si risvegli e speriamo che questo sia un segno di cambiamento significativo».
C’è qualcosa di Isgrò che lo rende profondamente, anzi, intimamente siciliano. Non tanto per l’accento che nonostante gli anni vissuti a Venezia (dove lavorava come giornalista culturale) e poi a Milano, appare ancora musicalmente vivo. Ma per il modo di costruire il pensiero, per quella sottile (tagliente) ironia che lo accompagna. E poi, per quella sofisticata intelligenza che lo porta a sgattaiolare tra le parole e dire una cosa per lasciar intuire altro. D’altronde, non è questa un’essenza dell’arte? Così, Isgrò parla da autentico siciliano, ma soprattutto da artista: con pungente sarcasmo. È lui stesso a sottolineare: «Mi chiede se nel mio lavoro c’è ironia. Se per ironia si intende il distacco, certamente c’è. Ma più dell’ironia c’è il paradosso siciliano. Che è tipico degli artisti e degli scrittori siciliani, che affermano una cosa per dire esattamente l’opposto».
È inutile: per Isgrò la battuta non è solo un esercizio intellettuale, è piuttosto una necessità esistenziale. Ma eccolo subito alla verità dell’artista che ben sa del suo ruolo nella società e nel suo tempo. Che cosa c’è di gattopardesco nel Gattopardo? «Identifichiamo il Gattopardo con le parole di Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Certo, cambiare per non cambiare, purtroppo è un’attitudine tipica di certi apparati politici, però quando cambi in profondità il cambiamento avviene. Portiamo questo concetto nell’arte: con le mie prime esperienze di cancellazione ho cominciato ad affermare che la parola era morta».
Isgrò si ferma, poi sorride: «Era una ipotesi! Anch’io avevo paura di affermarlo, se non altro perché personaggi come Montale mi voltavano le spalle. Però, alla fine qualcosa è acca- duto. Cambiare per non cambiare è solo un’attitudine degli ipocriti. E della politica politicante. Molti accusarono Tomasi di Lampedusa di essere un reazionario. Certo, pensando al potere di oggi e a chi tiene le leve di comando in Italia mi viene da dire: possiamo chiedere a uno dei nostri politici qual è l’ultimo libro che ha letle to? Leggere è innescare la possibilità di riflettere. Per questo l’arte deve porre le domande, le risposte le deve dare la politica». Tomasi sul piano della politica è stato profetico. «Forse era un principe che nella sua visione aristocratica non amava il popolo. Una volta, suo cugino Lucio Piccolo mi raccontò che a un contadino di Piana degli Albanesi che gli chiedeva dove fosse il Politeama, lui gli indicò la strada opposta. Gli voleva far pagare il fatto di essere un contadino. Sarà una storia vera? Non lo sappiamo».
Ancora una volta, ecco l’ironia di Isgrò: «Pensando a Tomasi di Lampedusa credo che quando uno scrittore racconta un mondo, rappresenta e basta. Anche quando Flaubert disse “Madame Bovary c’est moi”, non dice il vero. A ogni artista piacerebbe far corpo con la propria opera, ma poi le opere camminano con i propri piedi». E lei fa un corpo unico con la sua opera? «Io faccio corpo con me stesso. Se poi posso identificarmi con la mia opera, spero accada solo in parte. Perché se diventassi un corpo unico con il mio lavoro non darei più niente agli altri». Che cosa l’ha portata nel 1976, negli anni della contestazione studentesca a cancellare il Gattopardo? «Sono sempre stato molto attratto da ciò che è diverso da me. Si può quindi capire come mi incuriosisca
uno scrittore come Tomasi di Lampedusa. In una certa letteratura siciliana c’era un aspetto verticalizzato del vivere che non contemplava la visione del popolo. Lampedusa era interessato soltanto a quegli interessi letterari come espressione di sé stesso».
Che cos’è per lei il gesto della cancellazione? «Una volta, in un dibattito pubblico, accusarono Sciascia di non credere in nulla. Lui rispose che se non avesse creduto in nulla, allora non avrebbe scritto nulla. Questo vale anche per me: alcuni sostengono che ho distrutto la parola. Non ha senso: se non credessi nella parola non la cancellerei. La cancellatura, come tutta l’arte, è sfaccettata, nel senso che esprime più valori, più significati, più contraddizioni. Sono riuscito a far diventare la cancellatura da gesto distruttivo a un gesto costruttivo. Con le cancellature si possono cantare le lodi a Dio. Con le parole che adesso sono sprecate e usate a sproposito, si cantano le odi al diavolo».
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Con le migliori intenzioni Se non credessi nella parola non la cancellerei. La cancellatura, come tutta l’arte, è sfaccettata