Kidman, madre di un ragazzo gay costretto alla «conversione»
Quella del «padre alternativo» dev’essere un ruolo che Joel Edgerton ha nel sangue: si era fatto conoscere come attore accudendo Luke Skywalker in Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni e aveva interpretato un possibile padre (con più di una sfumatura horror) nel suo esordio come regista, Regali da uno sconosciuto. Adesso lo ritroviamo ancora una volta ambiguo padre spirituale in Boy Erased (Ragazzo cancellato), suo secondo film come regista, alla Festa di Roma nella sezione che presenta il meglio di altri festival (il film era passato in prima mondiale a Telluride). Al centro del film il diciannovenne Jared (Lucas Hedges) che si sente obbligato a confessare ai genitori la scoperta della propria omosessualità. Che la madre (Nicole Kidman) sembrerebbe disposta anche a capire ma che il padre (Russell Crowe), intransigente pastore evangelico, pensa bene di affrontare costringendo il figlio a frequentare uno di quei centri di «conversione sessuale» che cercano di riportare sulla retta via dell’osservanza religiosa i peccatori tentati da pratiche sessuali «devianti». Come appunto considerano l’omosessualità. Nella prima parte, il film descrive soprattutto la scoperta del desiderio da parte di Jared e le sue iniziali, contraddittorie esperienze. Ma poi lo sguardo si allarga alle pratiche intimidatorie e costrittive che quel centro mette in campo sotto la soffocante direzione del suo direttore, che un Edgerton occhialuto e baffuto interpreta con inquietante bravura. È la parte in cui il film trova la sua ragion d’essere, portando alla luce i comportamenti inquisitori e repressivi con cui si cerca di inculcare nelle mente dei giovani la vergogna per le proprie inclinazioni sessualità, a volte con qualche eccesso di didascalismo (il rassicurante buon senso della dottoressa di famiglia) ma più spesso con bella efficacia. Si capisce che all’origine c’è un’esperienza vissuta in prima persona (da Garrard Conley, che iniziò a scriverne sulle colonne del New York Times per poi farne un libro) ma che il regista, autore anche della sceneggiatura, vuole trascendere l’esperienza personale per allargare lo sguardo dello spettatore su quella micidiale commistione di integralismo religioso e oscurantismo sessuale che a leggere nelle didascalie su cui termina il film (settecentomila giovani avrebbero subito quei trattamenti) sembra ancora molto diffusa negli Stati Uniti.