La festa di Ennio Morricone maestro del cinema che suona
Oggi il musicista compie 90 anni. E dialoga con Giuseppe Tornatore in un libro edito da Harpercollins Italia
Ennio Morricone e Giuseppe Tornatore si sono incontrati la prima volta nel 1988. Da allora, Morricone è diventato (tranne una volta) il musicista dei film di Tornatore, il quale, in comune con i film di Sergio Leone, ha talvolta un certo tono epico. Il Novant’ennio si celebra oggi. Novant’anni, e d’ora in poi per il cinema comporrà soltanto per lui, Giuseppe detto Peppuccio.
Sono diventati amici e con questo spirito hanno conversato del mondo e del loro lavoro nel libro Ennio, un maestro. Pubblicato da Harpercollins, verrà presentato lunedì alle 17.30 al Teatro Quirino di Roma. Rovistando nei segreti dell’immaginazione, il regista interroga il cinema che suona.
I film nelle loro conversazioni a volte sono un pretesto, oppure tornano prepotenti come un primo piano, mentre li «riguardano» con l’occhio ora dell’esperto ora dello spettatore. Morricone comincia dal silenzio in musica, che è già suono nelle pause. «La mia musica parte da questa idea. E da due giganti, Bach e Stravinskij». Infatti si pensa al contrappunto e alla ricerca timbrica, allo sparigliare le carte di tante sue colonne sonore o canzoni («Se telefonando si apre con tre suoni usati in modo del tutto non convenzionale»), dove rimastica il passato ma assumendo una sua identità definita, applicando «i canoni della dodecafonia alla musica melodica, non era mai successo prima».
E poi gli altri pilastri che lo ispirano, la scuola romana, la grande polifonia rinascimentale, Monteverdi, Frescobaldi, Palestrina che fu tra i fondatori dell’allora Congregazione di Santa Cecilia, di cui Ennio è membro dal 1996, e i cattedratici del mondo classico smisero di fargli la guerra imputandogli il peccato originale delle colonne sonore.
Ma qual è, chiede Tornatore, il segreto di Ennio Morricone? «Ho sempre scritto musica che fosse utile al film, molti davano importanza alla ritmica, io ne davo pochissima… Credimi, io quasi non sono responsabile di ciò che ho scritto, è solo quello che pensavo, che avevo dentro. Che poi susciti entusiasmi, condivisioni, nostalgie, è bello, ma non so dirne le ragioni». Una delle rivoluzioni di Morricone è che gli archi non costituiscono più il baricentro della melodia, la ritiene una soluzione passiva, antica, mentre lui è proteso a «un dialogo tra suoni completamente diversi». Sulla scia del suo maestro Goffredo Petrassi, Morricone si è sempre speso, in maniera quasi ossessiva, sull’aspetto etico e la disciplina del fare musica: «Sulla melodia si lavora. Non è magia, ha delle logiche».
La sua pulsione innovativa va contro l’orecchiabilità, lo incalza Tornatore, eppure la sua fortuna nasce da temi che la gente sa fischiettare. Per Ennio, la melodia tradizionale ha fatto il suo tempo, con l’opera e tutti i suoi residui: «La ragione principale è che le combinazioni melodiche sono esaurite». L’«altra» musica la chiama assoluta, dice che esistono delle convergenze con quella al servizio delle immagini.
Lo strumento che ama di più è la tromba, forse perché lo riporta a quando, con suo padre, la suonava nei locali romani per le truppe americane, subito dopo la guerra, veniva pagato con cibo e sigarette che lui vendeva per strada, portando i soldi ricavati a casa. Ha usato suoni extramusicali: frusta e incudine, barattolo e martello, alfabeto Morse e gocce d’acqua, sirene della polizia e scatole di latta. Il suono che ama di più? «Darò una risposta scioccante: è quello della gran cassa sommata al tam tam».
Le esperienze in radio e alla tv, le sconfitte in età giovanile, per esempio, legate alla musica leggera, come la direzione d’orchestra al Festival di Sanremo o certi arrangiamenti per Chico Buarque de Hollanda o per Domenico Modugno.
Nel libro parla naturalmente di Leone, o di Pasolini, Petri, Risi; dell’assunzione in Rai all’epoca in cui era fidanzato con Maria, la compagna della sua vita a cui ha dedicato i due Oscar; della famiglia d’origine; della sua natura «un po’» superstiziosa; del suo amore per gli scacchi («un combattimento che insegna la battaglia della vita, la voglia di migliorarsi, di superare le avversità»), una volta compose uno strano pezzo ispirandosi a pedine e pedone, fanti, torri e cavalli.
L’unica cosa su cui è reticente è la forza dell’istinto, che non si può spiegare. I due premi Oscar intrecciano le loro idee in musica. Tornatore per lei è una sorta di padre?, chiedemmo a Ennio nell’ultima intervista per il «Corriere». «Un figlio e un padre: il regista di un film deve esserlo».