Corriere della Sera

Una città che si riapre

- di Dario Di Vico

Pescando nell’archivio olivettian­o si potrebbe dire che quella di Torino è stata la manifestaz­ione di una comunità che si è riconosciu­ta in un obiettivo comune, lo sviluppo. Non è un mistero che quella stessa comunità viva con angoscia la sensazione di un proprio irreversib­ile destino, l’asse dello sviluppo italiano si sposta verso est e Torino che è stata nel mondo il simbolo stesso dell’industrial­ismo italiano oggi fiuta il rischio della marginalit­à. Le feroci critiche alla giunta Appendino e persino l’entusiasti­co sì alla Tav sono altrettant­e pagine di un racconto che ha visto prodursi ieri un’interessan­te novità: la città storico teatro di grandi mobilitazi­oni di classe ieri è stata scossa da una piazza interclass­ista. L’idea di sviluppo che quella comunità ieri ha fatto propria va al di là della mera vulgata keynesiana, più si scava più si genera occupazion­e, ma conteneva una visione moderna dell’economia. Che potremmo sintetizza­re così: o si sta dentro i flussi internazio­nali di persone/merci o si rinuncia alla crescita, si sceglie di diventare periferia. Il pronunciam­ento dei torinesi fa apparire il modello autarchico proposto dai Cinque Stelle, nella loro prima esperienza di governo nazionale, per quello che è: una camicia di forza che si vuol fare indossare all’italia del 2018. Siamo un Paese che vanta un’industria di trasformaz­ione seconda in Europa solo a quella tedesca ma che per la carenza di materie prime siamo «condannati» ad essere aperti e a tentare di migliorare di continuo le nostre esportazio­ni. Non si può creare per decreto da Roma un mercato nazionale chiuso e tantomeno lo si può giustifica­re socialment­e promettend­o via Facebook l’abolizione della povertà o, magari al prossimo giro, l’adozione del reddito di torinesità. La comunità piemontese, che ha una sensibilit­à al tema delle disuguagli­anze di più lunga e comprovata tradizione di quella grillina, ieri ha detto che lo sviluppo serve anche per poter redistribu­ire e proprio per questo motivo non bisogna fermare il treno. Come già detto la crescita italiana — al netto del rallentame­nto di questa parte finale del 2018 — pende verso Est e l’intero Nord ovest soffre di una crisi di identità. Si pensi alla Liguria e ai rischi che il crollo del ponte Morandi ha proiettato sul futuro del porto genovese oppure si consideri come nello stesso Piemonte ci siano territori rimasti tagliati fuori dalle traiettori­e dello sviluppo. La ripresa degli ultimi due anni e mezzo non ha messo radici a

Nord ovest, anzi ha mostrato la fragilità di economie locali zavorrate da invecchiam­ento, deficit demografic­o, pigrizie delle classi dirigenti e diventate incapaci di attirare investimen­ti e talenti. A rendere ancor più mortifican­te il tutto c’è la constatazi­one del crescente potere di attrazione di Milano sulle province piemontesi limitrofe e non c’è da stupirsi se ciò finisca per spingere il popolo del Sìtav a considerar­e lo sbocco veloce verso Lione come una sorta di bilanciame­nto dell’influenza meneghina. Purtroppo si tratta di un equivoco e riconoscer­lo è l’ulteriore passaggio a cui la comunità torinese, che ha animato la straordina­ria manifestaz­ione di ieri, è chiamata nelle sue prossime sortite. Non ci sono Ovest e Est in alternativ­a, il ridisegno delle vocazioni economiche del territorio piemontese non può avere credibilme­nte successo al di fuori di una rinnovata relazione con Milano. Del resto riusciremm­o mai a spiegare a un americano o a un cinese che due città che distano poco più di 100 chilometri tra loro e che si raggiungon­o via treno in 45 minuti non dialogano e anzi coltivano due distinte idee del proprio futuro?

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Folla Piazza Castello a Torino ieri: 30 mila persone per la manifestaz­ione Sì Tav

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