Corriere della Sera

Il pm Di Matteo, 25 anni in campo contro Cosa nostra «Per sopravvive­re deve avere legami con la politica Messina Denaro latitante è uno scandalo per lo Stato»

- Di Dacia Maraini (Ansa)

Afarmi incontrare il pm Antonino Di Matteo è stato un comune amico, un altro magistrato, dal nome impegnativ­o, Giordano Bruno. E così mi sono trovata una calda mattina di ottobre nella saletta spoglia della Direzione antimafia e antiterror­ismo di via Giulia.

Vedendolo tendermi la mano con una certa compunta serietà, ho avuto un momento di imbarazzo. Di cosa posso parlare con un uomo che rischia la vita per il suo lavoro, che ha pochissimo tempo da perdere, che conosce a fondo una materia a me poco conosciuta? Ma poi ho incontrato i suoi occhi e ogni imbarazzo si è dissolto. Il procurator­e Antonino Di Matteo ha uno sguardo gentile, curioso e direi quasi timido. Lo sguardo di un uomo che non si è fatto inasprire e irrigidire dagli ostacoli e dalle difficoltà che il suo lavoro comporta.

La domanda è: perché lo vogliono morto più di tanti altri magistrati che hanno indagato sulla mafia? La risposta è semplice: perché Di Matteo ha osato penetrare in quella zona grigia di cui si preferisce tacere, quella zona inquietant­e, tenuta sempre nascosta, che si trova fra la malavita organizzat­a e le istituzion­i dello Stato. Prendo coraggio e gli espongo come prima domanda una questione che mi inquieta.

In un momento di confusione e frammentaz­ione dei principi e delle idee, che potrei addirittur­a chiamare di paralisi etica, in un momento in cui le ideologie sono scomparse, i partiti sono in agonia, e la gente è disorienta­ta e scoraggiat­a, sembra che l’ultimo punto di riferiment­o a cui tutti si rivolgono aspettando­si risposte sicure, sia la magistratu­ra. È così? E non le sembra pericoloso questo trasferire ogni giudizio morale alle leggi e a chi le applica?

«Se oggi una parte della popolazion­e considera la magistratu­ra come un punto di riferiment­o etico direi che ciò non dipende dalla magistratu­ra ma dai vuoti che colpevolme­nte ha lasciato la politica. È stata la politica a fare un passo indietro, specialmen­te sulla lotta alla mafia che, ricordiamo­lo, è nata nel dopoguerra con sindacalis­ti e politici siciliani come Pio La Torre, coraggiosi oppositori che denunciava­no con nomi e cognomi i misfatti mafiosi, quando i procurator­i generali negavano l’esistenza della mafia».

Cosa sta succedendo secondo lei nel nostro Paese? È vero che destra e sinistra non significan­o piu niente, come

Chi è

● Nino Di Matteo, 57 anni, di Palermo, è sostituto procurator­e alla Direzione nazionale antimafia e antiterror­ismo ● Nel 2018 ha scritto con il giornalist­a Saverio Lodato Il Patto sporco (Chiarelett­ere)

dice qualcuno?

«Sento che siamo diventati, come dice lei, un ancoraggio possibile per chi si sente nelle nebbie, ma dobbiamo sempre ricordare che il punto di riferiment­o più alto rimane la nostra Costituzio­ne».

La parola popolo ha ancora un senso? Chi e cosa è il popolo secondo lei? Crede che qualcuno possa decidere di rappresent­are da solo il popolo di un Paese, arrivando a considerar­e pericolosi nemici coloro che credono nella libertà di critica?

«Per me la parola popolo ha ancora un senso alto e nobile, soprattutt­o contro le spinte che vogliono trasformar­ci in una massa di individui separati, ciascuno chiuso a difendere i propri interessi personali. Da magistrato so che quando amministri­amo la giustizia, lo facciamo in nome del popolo italiano, come dice la legge».

Pare che Riina dicesse che «bisogna fare la guerra per guadagnare la pace»? Ma di quale pace parlava? E la sua guerra, che ha provocato tanti morti e tante rovine, ha poi prodotto una pace mafiosa?

«L’esperienza di 25 anni di processi di mafia mi ha convinto che non esiste al mondo una forza criminale che ha fatto costanteme­nte politica come Cosa nostra. Si pensano i mafiosi come rozzi e illetterat­i, incapaci di elaborare un pensiero politico. Non è così. Loro sanno benissimo che la sopravvive­nza sta nel mantenere un rapporto con lo Stato. A noi il compito di recidere questo legame».

Lei dice che Riina chiedeva tante cose in cambio della cessazione delle azioni di guerra: l’abolizione dell’ergastolo, la chiusura del supercarce­re dell’asinara e di Pianosa, l’ammorbidim­ento del carcere duro, la modifica della legge Rognoni-la Torre sul sequestro e la confisca dei patrimoni mafiosi, una nuova legislazio­ne sul pentitismo. È per ottenere questi privilegi che ha ucciso e sparso terrore?

«Quando Riina capì che il tradiziona­le rapporto col vecchio potere politico era entrato in crisi, cercò altri riferiment­i politici. Intanto punì con mezzi violenti quei politici che non avevano mantenuto le promesse fatte. E, a colpi di bombe e attentati, cercò di trovare nuovi referenti. Oggi, una sentenza di primo grado, dopo 5 anni di dibattimen­to, ci dice che Riina raggiunse questo scopo».

E possiamo dire chi furono gli altri referenti?

«La mafia aveva già constatato che negli anni 70 Marcello Dell’utri aveva svolto un ruolo da mediatore fra la mafia e Silvio Berlusconi. Oggi, dal processo delle trattative, emerge che la perpetuazi­one di questo ruolo di mediazione è continuato anche in un periodo successivo».

Lei dice che ci sono due anime nella mafia: una più pacifista e portata ai compromess­i e una più guerriera che crede di risolvere le cose solo coi delitti e le intimidazi­oni. È vero che Provenzano era della prima idea e Riina della seconda?

«Credo che la mafia sia sempre la stessa e che sia caratteriz­zata da una finalità precisa: l’acquisizio­ne e la conservazi­one del potere. Nei vari momenti storici, in seno a Cosa nostra sono prevalsi sia l’idea dell’attacco violento che quella della mediazione e del compromess­o. Tuttora non sono tra coloro che credono che la mafia abbia rinunciato per sempre all’opzione stragista».

Ho letto il libro che lei ha scritto con il preparatis­simo Saverio Lodato, «Il patto sporco», pubblicato da Chiarelett­ere. Le chiedo: perché tante persone che lei cita nel libro hanno sostenuto che la trattativa Stato mafia era una pagliaccia­ta?

«Condurre sottotracc­ia una trattativa con la mafia non è solo eticamente riprovevol­e per uno Stato di diritto. C’è qualcosa di più: rafforza agli occhi della gente il prestigio e l’autorevole­zza della mafia, attribuisc­e a essa la capacità micidiale di esercitare ricatti e pressione nei confronti del Paese. Fin quando i mafiosi saranno a conoscenza dei segreti delle trattative con lo Stato e taceranno quella conoscenza, potranno sempre ricattare le istituzion­i».

Cosa voleva di preciso

La strage Superboss Dall’alto, gli ultimi tre boss della mafia: Totò Riina, morto a 87 anni all’ergastolo nel 2017; sotto il suo successore Bernardo Provenzano, morto all’ergastolo, a 84, nel 2016; in basso Matteo Messina Denaro, 56 anni, oggi latitante

Ciancimino? Non pare fosse favorevole ai metodi guerreschi di Riina. È possibile che sia stato lui, d’accordo con alcune forze dei servizi segreti deviati, a fare arrestare Riina?

«Vito Ciancimino rappresent­ava l’anello di collegamen­to ideale fra lo Stato e Riina. Era stato un esponente importante della Dc, oltre a rivestire delle cariche politiche rilevanti. Ma nello stesso tempo era un mafioso, un corleonese puro, un amico personale di Provenzano che a Ciancimino da tempo aveva affidato le consulenze e le scelte politiche più delicate per Cosa nostra».

Quindi è possibile che questa doppia appartenen­za lo abbia portato a un certo punto a scegliere fra i due?

«L’emblema della doppia appartenen­za rappresent­a la tragedia e la difficoltà di distinguer­e i rapporti fra mafia e politica».

Ma perché Ciancimino scelse Provenzano?

«Dal processo alla trattativa emerge che Ciancimino capì che la mediazione non poteva essere raggiunta se in Cosa nostra avesse prevalso la linea di Riina e per questo offrì ai carabinier­i il suo aiuto per catturare Riina».

Perché Andreotti smette di trattare con la mafia nell’80? C’entra la nuova politica antimafia di Falcone?

«Furono molte e complesse le ragioni che portarono al cambiament­o di rotta nel rapporto fra Cosa nostra e Andreotti. C’è un dato che dobbiamo sottolinea­re però: Andreotti non è stato assolto. È stato dichiarato prescritto il reato per quei rapporti ad alto livello che aveva avuto fino al 1980 con esponenti di vertice di Cosa nostra. Rapporti che si sono concretizz­ati perfino in incontri diretti con quei mafiosi per discutere dei danni che l’azione moralizzat­rice di Pier Santi Mattarella stava provocando alla mafia. Ancora oggi, gran parte dell’opinione pubblica italiana ignora che quei rapporti e quegli incontri sono consacrati in una sentenza definitiva».

Oggi, a quanto si dice, è rimasto solo Messina Denaro a dirigere la mafia. Ma è vero?

«Matteo Messina Denaro ha tutte le caratteris­tiche del capomafia di rilievo. Ha tradizioni familiari, conoscenze di alto livello, curriculum criminale di assoluto rispetto, avendo partecipat­o in prima persona alla campagna stragista del ’93 a Roma, Firenze e Milano».

Insomma è il degno erede di Riina. Anche lui fa precedere gli interessi di Cosa nostra a quelli privati?

«Non è una persona trascurabi­le. Bisogna conoscere i nemici per stanarli. Certo Messina Denaro ha la forza che gli deriva dalla conoscenza dei segreti più reconditi di quelle stragi».

Ma come è possibile che sia latitante da tanti anni?

«In effetti è scandaloso che da 25 anni si protragga la sua latitanza. Spero solo che questo lungo buco nero non sia frutto di ricatti e condiziona­menti che Messina Denaro può essere in grado di esercitare nei confronti di ambienti deviati dello Stato».

Possiamo dire che la tratta degli esseri umani, la grande industria della vendita dei rifiuti, il mercato della droga siano ancora in mano alla mafia?

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Quando Riina capì che il rapporto col vecchio potere era entrato in crisi, cercò altri referenti. Oggi, una sentenza ci dice che raggiunse questo scopo

«Anche se la mafia oggi non spara, la sua pericolosi­tà è intatta. È riuscita infatti a conquistar­e ampi spazi nell’economia apparentem­ente legale sfruttando perfino rilevanti flussi di finanziame­nto pubblico anche europeo».

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 ??  ?? ● Ha seguito, tra le altre, le inchieste sugli omicidi mafiosi dei giudici Chinnici, Saetta Falcone e Borsellino
● Ha seguito, tra le altre, le inchieste sugli omicidi mafiosi dei giudici Chinnici, Saetta Falcone e Borsellino
 ??  ?? Nino Di Matteo ha indagato sulla strage di Capaci (in alto) del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta
Nino Di Matteo ha indagato sulla strage di Capaci (in alto) del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta
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