Racconti dalle ore nere
In due novelle di Antonio Debenedetti gli ebrei travolti dalle leggi razziali «A
ncora, dopo nove anni, nonostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pesti lenzi al issi mofo et orj uda icus ».
Non era bastato al signor Daniele Catellani («bella testa ricciuta e nasuta — capelli e naso di razza»), protagonista della novella Un goj di Luigi Pirandello, rimuovere il primo cognome (Levi), sposare una cristiana imparentandosi «con una famiglia cattolica, nera tra le più nere», obbedire alla richiesta di battezzare via via tutti i cinque figli «perciò perduti irremissibilmente perla sua fede» originaria e farsi accettare fino in fondo. Niente da fare: seguitava, per colpa di quel suo suocero «cristianissimo e imbecille» nipote del defunto cardinale Ambrini e «uom od’ in transigent issi mi principii clericali» a «sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero».
Anche Enrichetto Norzi, uno dei due protagonisti del primo e bellissimo racconto di Antonio Debenedetti, E fu settembre, si sente di colpo «un goj» quella mattina di fine estate in cui i giornali raccontano dell’espulsione da tutte le scuole del Regno di tutti i maestri, i professori, i docenti universitari e tutti gli studenti ebrei. Ma non in famiglia. Meglio: quella che è la sua famiglia da quando vive a Roma, famiglia riassunta in Clotilde Bonifazi, la «donnetta di chiesa» che gli ha affittato una camera. La «mite e sbiadita creatura» con la quale condivide una vita piccola piccola fatta di silenzi, ordine, semplicità, cortesie… Una zitella ignara di sangue e di razze e di purezze ariane ma che al momento giusto sa scegliere da che parte stare: «Qui, da me, lei è sicuro».
Anche Dora, la piccola protagonista de L’inquilino misterioso, il secondo racconto dell’autore su quei giorni neri, si sarebbe probabilmente sentita coinvolta e partecipe come Clotilde nella tragedia del Popolo errante. Se solo fosse stata grandicella. Ma che poteva saperne, lei, una bambina, di quella tragedia immane che capitava «agli altri»? Eppure le bastò sapere che quel signor «Salzman, o qualcosa del genere» era stato preso e che lo stavano portando via per capire. E conservare per anni il senso di colpa di non aver capito prima. Quando lo sconosciuto le era improvvisamente apparso facendola sussultare. Anche lei sarebbe stata una «Giusta».
Furono tanti, i «Giusti» italiani che cercarono di aiutare gli ebrei. Tanti. Non di meno però, purtroppo, quelli che non videro. Che si girarono dall’altra parte. Che si prestarono a collaborare prima coi razzisti e poi con i nazisti. Al punto che, scrivono ne Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, «i bimbi ebrei sono anche vittime di una ulteriore piaga che infuria nei mesi dell’occupazione nazista, quella della delazione: secondo la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Roma nel luglio 1947, un gruppo di sei spie italiane che agiscono nella capitale vendono i bambini ebrei a mille lire l’uno e i militi italiani si distinguono in dare loro la caccia, come l’appuntato dei carabinieri che arresta nel febbraio 1944 a La Spezia Adriana Revere, di nove anni…».
Una vergogna. Che non può far dimenticare, però, che duemila o più carabinieri (gli archivi non ci sono più: distrutti dalle Ss) furono arrestati nelle loro caserme a Roma e deportati nei campi di lavoro in Austria e in Germania, da dove oltre seicento non sarebbero tornati vivi, una settimana prima della grande retata contro gli ebrei. Proprio perché il Terzo Reich temeva (a ragione) che i militari rimasti fedeli al re potessero mettersi di traverso a quella infame operazione di polizia.
Dei 1.023 ebrei del ghetto di Roma, rastrellati nell’ottobre 1943, rientrarono vivi solo in 17. E tra questi, uno solo dei 288 bambini portati via in quel maledetto «sabato nero». Una strage degli innocenti. Ai quali oltre mezzo secolo dopo sarebbe stato dedicato, grazie al lavoro di ricerca infaticabile di Liliana Picciotto e altri, un «ossario digitale» online con decine e decine di foto di bambini e bambine spesso più piccoli perfino di quanto fosse Dora nel racconto di Debenedetti. Come Fiorella Anticoli, due anni, che aveva occhi grandi e luminosi e grandi nastri bianchi tra i boccoli. Olimpia Carpi, imbacuccata in un minuscolo paltò bianco. E Massimo De Angeli, di quattro o cinque anni, che bacia il fratellino Carlo appena nato. Graziella Calò, che in bilico su una sedia pianta le manine sul tavolo per non cadere. E poi Costanza e Franca ed Enrica il giorno che andarono al mare a giocare col tamburello sulla spiaggia…
Tutti passati per il camino. Nella scia di secoli e secoli di ostilità, disprezzo, diffidenza. Un’ostilità che prima delle leggi razziali, nel 1924, aveva spinto un intellettuale di spicco come Agostino Gemelli (fondatore e rettore dell’università cattolica del Sacro Cuore di Milano, presidente della Pontificia accademia delle scienze e gigante storto della cultura italiana al quale è tuttora intitolato il Policlinico universitario di Roma) a tuonare su «Vita e pensiero», dopo il suicidio di Felice Momigliano: «Se insieme con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore non è vero che il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione». Agghiacciante.
Certo, non si può fare di ogni erba un fascio. E non si può ricordare padre Gemelli senza ricordare insieme i cristiani che scelsero di opporsi al razzismo antisemita. Da Pio XI che sentenziò, censurato dai giornali fascisti e perfino tra quelli clericali, che «il genere umano, tutto il genere umano, è una sola grande, universale razza umana» e che «l’antisemitismo è inammissibile: noi siamo spiritualmente Semiti», fino alle tantissime persone come Clotilde Bonifazi che scelsero di aiutare come potevano i «fratelli maggiori ebrei» o che come la piccola Dora presero coscienza allora di cosa significhi essere timbrati come «diversi».
Per questo i due racconti di Antonio Debenedetti racchiudono, in due piccole storie esemplari, il buio dell’abisso e le flebili luci che offrono una speranza.