Un’economia della conoscenza per un’altra idea di sviluppo
César A. Hidalgo insegna Media, Arti e Scienze al Mit di Boston. Giovedì riceve a Torino il Premio Lagrange Silvia Crupano)
GIl Prodotto interno lordo sarà forse sostituito dalla Conoscenza interna lorda
iusto poche settimane fa, il Comitato per il Nobel ha riconosciuto il valore di Paul Romer conferendogli il Premio per l’economia. Il suo lavoro ha contribuito a risolvere il mistero della crescita economica grazie a un’intuizione semplice ma potente: a differenza dei fattori classici di produzione, come il capitale e il lavoro, la conoscenza è un «bene non competitivo», ovvero può essere condiviso senza che si consumi. Questo significa che essa è l’unico elemento che potrebbe effettivamente incrementarsi a livello pro-capite e, quindi, è il segreto della crescita economica.
Il modello di Romer, elaborato nel 1990, non solo ha fornito alla teoria una solida base matematica ma, cosa più importante, è stato d’ispirazione per i ricercatori nello studio della creazione, diffusione e valutazione della conoscenza. In breve tempo, molti hanno seguito le sue orme. Tre anni dopo l’apporto fondamentale di Romer, Adam Jaffe, Manuel Trajtenberg e Rebecca Henderson hanno pubblicato un articolo decisivo sulla diffusione geografica della conoscenza, esaminata attraverso i dati sui brevetti. Questi ultimi sono stati analizzati con una tecnica denominata matching («corrispondenza, abbinamento»), che ha consentito di identificare un «gemello» per ciascuno di quelli presi in esame. Gli economisti hanno poi messo a confronto i brevetti con i loro «doppi», contando le citazioni ricevute da ognuno da parte di inventori residenti nella stessa città del titolare del brevetto principale. Rispetto ai brevetti gemelli registrati in una città diversa, quelli provenienti dalla medesima località si citavano a vicenda molto di più. Se Romer aveva dimostrato che la conoscenza può essere condivisa all’infinito, Jaffe, Trajtenberg e Henderson avevano provato che essa, tuttavia, ha difficoltà a spingersi lontano.
Ma perché la conoscenza risultava così geograficamente incardinata? Ne seguì un dibattito sulla diffusione della conoscenza in concomitanza con l’ascesa di internet: i tecno-guru della costa orientale e occidentale degli Stati Uniti prefiguravano un mondo in cui le persone avrebbero lavorato da casa e le città sarebbero svanite. Si è verificato l’opposto: nei decenni successivi, infatti, i valori immobiliari a New York e nella Silicon Valley sono quadruplicati e la conoscenza si è concentrata come mai prima. I geografi economici e gli economisti dell’innovazione compresero così che il mondo non si stava uniformando, come alcuni sostenevano, ma stava diventando sempre più differenziato.
Nei primi anni Duemila, Stefano Breschi e Francesco Lissoni, dell’università Bocconi, insieme a Jasjit Singh, del centro di ricerca Insead (Institut européen d’administration des affaires), hanno integrato le conclusioni di Jaffe rivelando come all’origine del cappio della geografia intorno alla conoscenza vi fosse la rete di coautorialità dell’inventore. Da Romer a Singh era stato quindi chiarito che la conoscenza è importante e tendenzialmente radicata, eppure mancavano ancora strumenti adeguati per misurarla.
Io avevo dieci anni quando Paul Romer dava alle stampe quell’articolo rivoluzionario sulla crescita economica. Sedici anni dopo, comunque, è arrivato il mio turno di dare un contributo agli studi in quel settore. Il primo mezzo per la misurazione della conoscenza è stato quello che gli addetti ai lavori chiamano correlazione e che rende conto di un aspetto unico della conoscenza: la sua natura relazionale. La conoscenza, si sa, non è trasferibile: una persona che sa tanto di musica potrebbe saperne pochissimo di sport. Lo stesso vale per le economie: un’economia forte nel campo dei prodotti chimici potrebbe non esserlo altrettanto nell’industria manifatturiera. In teoria, quindi, dovremmo poter misurare quanta conoscenza possiede una certa economia non in totale bensì relativamente a ciascuna attività economica.
La buona notizia era che creare una misura della correlazione è semplicissimo, bastano due passaggi: il primo consiste nel creare una rete che colleghi prodotti simili. Nel nostro caso, abbiamo collegato coppie di prodotti che in genere venivano esportati insieme: maglie e camicette, mele e pere, autobus e automobili. Grazie a questa rete, per qualsiasi oggetto potevamo domandarci: quanti prodotti affini sono stati già esportati in un dato Paese? Se la risposta era, ad esempio, 50% in un caso e 30% in un altro, ne deducevamo che il primo Paese aveva una maggiore conoscenza di quel particolare prodotto e che era più probabile che in futuro iniziasse a esportarlo. Abbiamo verificato che accade così. L’eventualità che un’economia entri in un certo mercato aumenta a seconda della correlazione tra quell’economia e quel mercato: nella letteratura specializzata, questa è ormai un’evidenza solida, valida non solo per Paesi e prodotti ma anche per regioni e industrie, città e brevetti, università e settori di ricerca.
Un paio d’anni fa, dopo la pubblicazione del nostro studio sulla correlazione, abbiamo divulgato una seconda misurazione, che registrava il totale della conoscenza in una economia. I rilevamenti, questa volta, non si concentravano sulla natura relazionale della conoscenza ma sulla sua intensività (grado di intensità). Un Paese come Singapore, con 4 milioni di abitanti, può avere una conoscenza produttiva superiore a uno come l’etiopia, che conta 80 milioni di persone. La conoscenza produttiva non deve per forza essere correlata alla popolazione: è una quantità intensiva o pro-capite. L’abbondanza relativa di questo tipo di conoscenza, posseduta da Singapore, emergeva dalla varietà delle sue esportazioni e dalla loro peculiarità. Approfondendo quest’idea si fece strada una consapevolezza alquanto interessante: era possibile definire la conoscenza in termini del tutto circolari.
Dopotutto, quindi, aveva ragione Paul Romer? I Paesi con troppa conoscenza pro-capite erano più ricchi o crescevano più rapidamente? La risposta fu un coro di sì. I Paesi con economie a maggiore intensità di conoscenza (a maggiore complessità economica) progredivano a una velocità superiore.
Quali frutti darà nei prossimi decenni lo studio della conoscenza? Arriveremo a un punto in cui il Prodotto interno lordo (Pil) sarà sostituito dalla Conoscenza interna lorda? Impareremo davvero come progettare la sua diffusione? Continuerà a creare disuguaglianza spaziale, concentrandosi in poche città, o spezzerà le catene delle reti sociali e della geografia? L’unica certezza è che lo studio della conoscenza è un viaggio entusiasmante, è un campo in cui i frutti sui rami più bassi sono ormai stati raccolti ma l’albero della conoscenza sulla conoscenza è ancora carico di frutti maturi e sapori misteriosi. Sta a noi arrampicarci in cima e coglierli.
( traduzione di