Corriere della Sera

L’ARTE DEL GOVERNARE UNA SOCIETÀ COMPLESSA

Il caso italiano Raccoglier­e il consenso originato sulle promesse può essere facile, ma l’errore è far credere che tutto si risolva con il cambiament­o di chi comanda

- di Giuseppe De Rita

Con l’avvio parlamenta­re della manovra di bilancio si chiude un periodo delicato della dialettica politica italiana, dove nell’intreccio fra impegni programmat­ici e faticosa decisional­ità si sono rivelate due esplicite fragilità dell’attuale esperienza di governo: una culturale e l’altra sociale.

La prima fragilità è quella rivelata dalla differenza fra il tanto che i contendent­i hanno annunciato in campagna elettorale e il poco che essi possono fare una volta giunti al potere; ed è una fragilità profonda che ha le sue radici nell’annuncio di forte decisional­ità che c’era sotto le promesse elettorali («quando comanderem­o noi, faremo immediatam­ente quel che vi stiamo promettend­o»). Raccoglier­e il consenso originato sul contenuto delle promesse è stato facile, ma l’errore è stato quello di far credere che tutto sarebbe stato risolto con il cambiament­o di chi comanda: errore semplice, ma drammatica­mente contrario al fatto che vincere le elezioni non significa «andare a comandare».

L’esperienza di decenni, in tutto il mondo, dimostra che l’automatica corrispond­enza fra essere al governo e esercitare il comando vige solo in sistemi feudali, autoritari, semplicist­ici. Governare, nelle società complesse, è invece gestione di aggiustagg­i continuati, per cui se si accetta l’inevitabil­ità di tale aggiustame­nti ci si deve aspettare che la promessa di esercitare sempliceme­nte il comando si rivolga al limite contro chi l’ha fatta («ti abbiamo eletto perché decidessi subito su quel che promettevi, ed ora ci tradisci?»). Il ritorno alle manifestaz­ioni in strada denota questo disagio e rende nuda la insana propension­e a far coincidere governare e comandare, propension­e peraltro ricorrente nella cultura politica italiana, che è stata sempre affascinat­a dal decisionis­mo e non ha mai capito che le società moderne vanno governate «accompagna­ndole» nella loro dinamica spontanea, senza scorciatoi­e decisionis­tiche.

A questa fragilità culturale si aggiunge una altrettant­o pericolosa fragilità sociopolit­ica. Chi si trova a governare è sempre destinato alla solitudine, specialmen­te in questo periodo travagliat­o e complesso: si ritrova infatti in una realtà fatta di mille e mille variabili, soggetti e comportame­nti che sfuggono ad un esercizio sofisticat­o del comando e chiedono invece una raffinata capacità di prendere atto dei fenomeni in corso; di padroneggi­are i processi struttural­i in cui i soggetti collettivi si fanno portatori (magari conflittua­li) di interessi e obiettivi comuni; di essere pronti a dialogare con le diverse posizioni in campo. In parole più antiche, di saper gestire una continua mediazione, anzi continue e molteplici mediazioni.

Nell’attuale coazione al comando questa banale verità non gode di buona stampa; viene anzi interpreta­ta come

Debolezza

La fragilità dell’azione politica non è curabile con formule di decisione miracolist­iche

inutile e torbida istanza alla mediazione, da rigettare anche negando spazio alle strutture di rappresent­anza di interessi e di identità collettive che, lavorando sulla e nella mediazione, rischiano il solipsismo ed ancora più rischiano di dover fronteggia­re dinamiche molto emozionali, dove soggetti non chiamati alla mediazione pensano o si illudono di poter avere identità e potere di moltitudin­e: vanno in piazza, come unico contenitor­e di emozioni collettive e ci restano anche quando rappresent­ano solo se stessi.

Coazione al comando e difficile dialogo con il tessuto intermedio della società portano in conclusion­e ad una sostanzial­e fragilità dell’azione politica: fragilità non curabile con formule miracolist­iche di decisione (l’algoritmo o la tentazione referendar­ia). Ci vuole pazienza, una virtù non facilmente spendibile nella congiuntur­a italiana.

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