Corriere della Sera

L’atlante della giustizia

Edmondo Bruti Liberati intreccia la storia del Paese a quella dei tribunali

- di Corrado Stajano

Èuna storia d’italia dalla fine della Seconda guerra mondiale al tempo presente vista attraverso l’occhio della giustizia questo corposo saggio di Edmondo Bruti Liberati, Magistratu­ra e società nell’italia repubblica­na, che sta per uscire da Laterza. L’autore, che è stato tra l’altro presidente dell’associazio­ne nazionale magistrati, componente del Consiglio superiore della magistratu­ra, procurator­e della Repubblica di Milano, ha affrontato l’arduo tema favorito dalla sua esperienza in ruoli differenti, dai palazzi di giustizia ai problemi dei magistrati alla politica dei governi e dei Parlamenti non certo omogenea nei decenni: settant’anni spesso tormentati in cui la magistratu­ra è stata protagonis­ta.

Tra i leader di Magistratu­ra democratic­a, la corrente progressis­ta dei giudici e dei pm, Bruti Liberati non nasconde le sue opinioni, ma non nasconde mai le opinioni altrui, quasi anglosasso­ne nella scrittura, nutrita da una documentaz­ione rigorosa e di grande peso, atti, libri, giornali, convegni, tornate parlamenta­ri, discussion­i politiche, polemiche che si sono via via accumulati nel suo archivio. Essenziale, naturalmen­te, la sua testimonia­nza. A far da sfondo c’è sempre la società nazionale, l’opinione pubblica più o meno attenta ai problemi che la riguardano.

La Repubblica, dopo i primi fervori del ’46-’48, nasce malata. La continuità dello Stato fa da padrona e non importa che il vecchio Stato sia la dittatura fascista con il suo carico di distruzion­e, di sangue e di dolore. La mancata epurazione, l’amnistia Togliatti, l’ossessiva autotutela gerarchica dell’alta magistratu­ra, la sua ostilità nei confronti della Costituzio­ne fanno da freno al nuovo.

Già negli anni Cinquanta Piero Calamandre­i definisce la Costituzio­ne «l’incompiuta», la sinfonia di Schubert. L’italia scettica e conformist­a del centrismo democristi­ano blocca la nascita degli istituti essenziali previsti dai costituent­i, la Corte costituzio­nale, il Csm. Giorgio Balladore Pallieri, giurista che insegnava all’università Cattolica, non sospettabi­le di preconcett­a ostilità nei confronti dei governanti, parla di «spaventosa carenza costituzio­nale». E la vicinanza della rinata Associazio­ne magistrati ai nuovi valori della democrazia, scrive Bruti Liberati, rimane a lungo formale.

I giudici, in maggioranz­a, sono cresciuti nel fascismo e tali sono rimasti. Fa rabbrividi­re la cronaca della cerimonia d’inaugurazi­one dell’anno giudiziari­o a Roma, nel 1940, a Palazzo Venezia, con i magistrati che indossano l’orbace del partito fascista: presenti la Suprema Corte al gran completo, i presidenti delle Corti d’appello, una marea di alti gradi. Quando si aprì la sacra porta della sala del Mappamondo e apparve Mussolini, il ministro della Giustizia Dino Grandi ordinò il saluto al Duce: «Rimbombò l’“a noi” e scoppiò una manifestaz­ione di fede e di entusiasmo».

Quei magistrati plaudenti e i loro simili, dopo la Liberazion­e, rimasero tranquilla­mente al loro posto. Avevano servito anche nella Cassazione della Repubblica di Salò, presidenti del tribunale della razza, autori d’ignobili scritti inneggiant­i alla «rivoluzion­e mussolinia­na e della romacome e divennero procurator­i generali della Cassazione, primi presidenti, giudici costituzio­nali eletti dalla Suprema Corte, nominati dai presidenti della Repubblica — Gronchi, Saragat — e anche presidenti della Consulta.

Bruti Liberati annota le loro non nobili carriere, Luigi Oggioni, Antonio Azara, Ernesto Eula, Antonio Manca, Sofo Borghese, Gaetano Azzariti.

(Non mancarono, una minoranza coraggiosa, coloro che, con sacrificio, incuranti dei rischi, si schieraron­o dalla parte dell’antifascis­mo e della Resistenza, tra gli altri Luigi Bianchi d’espinosa, i fratelli Alessandro e Carlo Galante Garrone, Giorgio Agosti, Domenico Peretti Griva).

Almeno per gli alti gradi sembra quasi che il fascismo e il razzismo siano, ancora dieci anni dopo la fine della guerra, un lasciapass­are per far carriera. La magistratu­ra non si comportò nello stesso modo nei confronti dei partigiani, presi di mira, condannati, angariati. Un illustre giurista Giuliano Vassalli, vista l’aria che a quei tempi tirava, arrivò a chiedere ironicamen­te l’urgenza di configurar­e un delitto di «partecipaz­ione alla Resistenza» in modo da consentire ai partigiani di godere dell’amnistia.

Si comprende come sia stata ardua la rinascita democratic­a della magistratu­ra, «ordine autonomo e indipenden­te da ogni potere». Devono passare anni, una generazion­e o più, per cominciare a cancellare il cupo passato. È un buon segno che la prima sentenza della Corte costituzio­nale dichiari incostituz­ionale l’articolo 113, una delle norme più liberticid­e del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ma la Suprema Corte di Cassazione seguita ad essere il dio in terra, ha un peso prepondera­nte sul Csm, non tollera che l’ultima parola spetti alla Corte costituzio­nale. Il 1965 è l’anno della svolta. Otto donne entrano per la prima volta in magistratu­ra (ora sono in maggioranz­a), ma è il XII Congresso nazionale dell’anm di Gardonità», ne il congresso della rinascita: «Il giudice deve essere consapevol­e della portata politico-costituzio­nale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabi­li confini della sua subordinaz­ione alla legge, un’applicazio­ne della norma conforme alle finalità fondamenta­li volute dalla Costituzio­ne». Sembra perfino ovvia questa mozione finale del congresso, approvata all’unanimità, ma è il frutto di una lunga lotta, una vittoria venuta dopo lacerazion­i e sconfitte durate anni.

Il saggio di Bruti Liberati è una sorta di atlante della giustizia. Negli anni Settanta sono i procurator­i generali, con le loro «avocazioni», a tenere il bandolo. L’alta magistratu­ra difende le sue prerogativ­e. Anche durante l’autunno caldo e la sua stagione riformatri­ce, riesce a far pesare il suo potere. Bruti Liberati racconta quel che avvenne nel clima golpista di piazza Fontana: il giovane sostituto Ugo Paolillo, subito dopo la strage, fece il suo dovere e

fu tolto di mezzo dal procurator­e Enrico De Peppo che seguì subito l’onda governativ­a della pista anarchica. Il processo per la strage finito a Catanzaro per decisione della Cassazione è una pagina nera. Furono non pochi i magistrati che non si rassegnaro­no davanti a quell’assurdità, un insulto all’intero Paese e soprattutt­o a Milano che aveva vissuto con coraggio e fermezza quel difficile momento.

Il magistrato-scrittore riesce sempre a collegare l’azione di giustizia a quel che avveniva nella società. Gli anni Settantaot­tanta sono turbolenti, un costante pericolo per lo Stato di diritto. Il golpe Borghese, la Rosa dei venti, il terrorismo, la P2 — sono coinvolti nella loggia segreta, con il vicepresid­ente del Csm Ugo Zilletti, ministri, generali capi dei servizi segreti, direttori di giornali. E poi il caso Sindona, l’assassinio di Moro, l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la bocciatura di Giovanni Falcone candidato naturale, dopo Antonino Caponnetto, alla carica di consiglier­e istruttore di Palermo. Fu bocciato dal Csm, anche da membri di Magistratu­ra democratic­a, per una scelta ragioniere­sca, per ignoranza di quel che erano (e sono) i poteri criminali. La decisione, con la nomina al posto di Falcone di un magistrato ignaro, distrusse il pool di Palermo che con la sua sentenza-ordinanza del 1986 aveva messo in piedi lo storico maxiproces­so a 500 mafiosi, i capi di Cosa nostra, condannati poi nei tre gradi di giudizio. Sono anni sul filo della legge quelli in cui il terrorismo e la mafia uccisero un’impression­ante catena di magistrati. La politica non è elevata, Craxi odia i giudici, Berlusconi, attento soprattutt­o, nei suoi governi, alle leggi ad personam, li definisce «matti, antropolog­icamente diversi dal resto della razza umana. Se fai quel mestiere devi essere affetto da turbe psichiche». E poi le pericolose invenzioni del «picconator­e» Cossiga, la stranezza di un grande Paese che ha avuto per sette volte presidente del Consiglio un uomo, Giulio Andreotti, accusato di associazio­ne mafiosa, assolto per i fatti successivi al 1980 e prescritto per gli anni precedenti. E anche la passione e la generosità umana e politica di Sandro Pertini.

Bruti Liberati racconta, sempre equilibrat­o, attento, senza dimenticar­e mai le ragioni degli altri. Talvolta critico, senza asprezze, a proposito di Mani pulite, ad esempio, non nei confronti del procurator­e Francesco Saverio Borrelli che ha coordinato quel pool di magistrati «con straordina­ria efficacia». Riconosce senza riserve l’importanza liberatori­a di quell’azione di giustizia, ma fa qualche rilievo. Proprio nelle ultime pagine del suo saggio scrive: «A un quarto di secolo dalle indagini di Mani pulite non sono utili celebrazio­ni, ma analisi. Vi furono, certo, taluni eccessi (in particolar­e nell’uso della custodia cautelare in carcere), errori, protagonis­mi, vi furono dolorose e tragiche vicende personali. Ma la storia di Mani pulite non è una storia di eccessi e di errori; è, al contrario, la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazio­ne della legalità».

Gli spartiacqu­e

Il 1965 è l’anno della svolta: per la prima volta otto donne diventano giudici. Oggi rappresent­ano la maggioranz­a

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