Corriere della Sera

Pechino e le punizioni commercial­i

- Di Danilo Taino

Non è che stiamo sbagliando mira? Tutti scandalizz­ati dal video pubblicita­rio «cinese» di Dolce & Gabbana, in questi giorni. È bruttino e sciocco. E peggiore è probabilme­nte la difesa che ne è stata fatta nella discussion­e pubblica. Ma non possiamo non accorgerci di quello che la vicenda racconta di più grande e più grave. Modelle, tecnici, siti di ecommerce cinesi si sono mobilitati come un sol uomo nella punizione della casa di moda italiana. Offesi, dicono, dalla mancanza di sensibilit­à verso la cultura del loro Paese, hanno messo in pratica un boicottagg­io di massa, palesement­e non spontaneo, che ha costretto al rinvio della sfilata prevista a Shanghai. Non sappiamo se sia arrivato un ordine da qualcuno al vertice del partito e del governo o se la scintilla sia scoccata dallo zelo di un funzionari­o intermedio. Sappiamo però che la «punizione» economica e commercial­e è una pratica consolidat­a, un modo di fare che in Cina si applica a un passo falso, a un errore o a qualsiasi cosa ideologica­mente e politicame­nte sgradita venga compiuta. Quando, nel 2010, il comitato norvegese del Nobel per la Pace premiò il dissidente Liu Xiaobo, Pechino bloccò l’importazio­ne di salmone dalla Norvegia fino al 2017. L’australia ha accusato le autorità cinesi di interferir­e nella propria politica interna: la reazione è stata violenta sul piano verbale ma ha anche preso la forma di ostacoli all’importazio­ne in Cina di vino australian­o. Ogni governo del mondo che intende avere un rapporto con il Dalai Lama deve camminare sulle uova: le sanzioni cinesi arrivano regolarmen­te quando il leader tibetano viene ricevuto. Da quest’anno, le compagnie aeree internazio­nali che non definiscon­o Taiwan parte della Repubblica Popolare vanno incontro a sanzioni. E così via, innumerevo­li imprese hanno dovuto chinare il capo e spesso negare i propri valori per salvaguard­are la loro quota di mercato nel Regno di Mezzo. È che, quando serve, l’ambiente di business cinese è usato dalle autorità per rovesciare posizioni ritenute antagonist­e o sgradevoli. Ovunque, nel mondo, un imprendito­re può fare un errore, usare un linguaggio inappropri­ato. Di solito sono i consumator­i e il mercato a stabilire la gravità del fatto. Solo in Cina è costretto a produrre un video umiliante nel quale fa autocritic­a pubblica, come ai tempi della Rivoluzion­e Culturale del presidente Mao: ora che Pechino si sente potente, la rieducazio­ne la applica su scala globale.

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