Corriere della Sera

IL CASO PAKISTAN, LE RADICI ANTICHE DI UNA MALATTIA OSCURA

- di Lorenzo Cremonesi

La malattia del Pakistan ha radici antiche. Sono composte da traumi che risalgono alla sua nascita drammatica con la decolonizz­azione britannica e la guerra civile tra musulmani e indù, causa della sanguinosa scissione dall’india nel 1947. Un Paese che aveva una classe dirigente formata dal meglio delle università inglesi, ma una popolazion­e povera, con un tasso di scolarizza­zione infimo, plasmata dagli imam nelle moschee e madrasse, cresciuta col mito della perdita del Kashmir, tenuta insieme dal fervore religioso misto al patriottis­mo revanscist­a. Di questa malattia dobbiamo tenere conto se vogliamo comprender­e la persecuzio­ne dei cristiani locali, assieme a quella degli sciiti e di tutte le minoranze che non si adeguano alla maggioranz­a musulmana sunnita. La via crucis di Asia Bibi ne è soltanto una delle tante manifestaz­ioni: non sarà l’ultima. Se ne rese conto George Bush quando chiese a Pervez Musharraf di cooperare nella guerra contro Al Qaeda. Era vero che Osama Bin Laden si nascondeva nella roccaforte trincerata di Tora Bora, ma i mentori spirituali e le basi logistiche dei suoi mujaheddin stavano nelle scuole religiose di Peshawar, tra i paesini irraggiung­ibili nelle «zone tribali» pakistane, nella vallata di Swat. Soprattutt­o, i potenti e intoccabil­i servizi segreti militari di Islamabad restavano alleati fedeli della jihad nella guerra contro l’india. E Daniel Pearl, il primo giornalist­a occidental­e decapitato in diretta di fronte ad una telecamera, era stato rapito nel 2002 tra i meandri poverissim­i del disastro urbano di Karachi, non a Kabul. Poi il blitz Usa per assassinar­e Osama Ben Laden fu ad Abbottabad, quartier generale dell’esercito pakistano. Dunque una malattia struttural­e, organica al Paese, che lo rende potenzialm­ente più pericoloso dello stesso Afghanista­n.

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