Vetri e muri antichi, qui c’è la mia Roma
Nello studio dell’architetto Achille Salvagni: il tavolo di lavoro continua nell’arte di Vanessa Beecroft
IFori Imperiali occhieggiano in fondo alla via. Nell’androne dell’edificio ottocentesco, mattoni a vista si contrappongono alla parete d’ingresso tutta a vetri. Contrasti, gli stessi che si ritrovano dentro, nello studio romano dell’architetto Achille Salvagni. Un open space seminterrato racchiuso tra i muri antichi e il soffitto brutalista, arredi ricercati che starebbero a meraviglia in una casa convivono con opere d’arte contemporanea: se non fosse per le scrivanie e le persone al lavoro, potremmo essere in una anticonvenzionale loft-abitazione. «Questa zona di Roma tra il ‘700 e l’800 apparteneva alla confraternita dei maniscalchi. Lo stesso proprietario del palazzo, nei primi ‘900, usava questo spazio come rimessa per le carrozzelle. Quando lo trovai, quasi 10 anni fa, era in stato di abbandono ma me ne innamorai per l’androne, la luce fioca che filtra dalle finestre a mezzaluna. E l’atmosfera, che trasuda storia»: così Salvagni rievoca il suo arrivo in quello che sarebbe diventato il suo primo, vero studio. «Mio padre, costruttore, avrebbe voluto che entrassi nella sua attività. Io ero convinto di voler fare un’altra strada, per cui, dopo la laurea, tardai a prendermi l’onere di uno studio. Quando mi sentii avviato, iniziai a cercarlo. E capitai qui».
Oltre un anno di restauro e oggi lo spazio è un luogo multiforme, che rispecchia le sfaccettature del suo proprietario. Il box tutto di vetro all’ingresso, arredato con poltrone, consolle, lampade e scaffali, sembra un raffinato salotto, ma di base non lo è: «All’inizio era la sala riunioni, poi è diventata la zona dei prototipi. Sono arredi “di studio”: non si possono acquistare», così definisce le «prove» dei suoi pezzi in serie limitata. Ricercati contenitori sono sparpagliati tra le scrivanie: «Sono la mia ossessione: quella è una credenza di Paolo Buffa, del 1927», dice e indica il mobile specchiato sotto una grande foto di Vanessa Beecroft, prosedisegnarla Trasparenze Achille Salvagni nel ballatoio vetrato del suo studio romano: sotto, i suoi collaboratori e l’opera fotografica di Beecroft (Lannutti/ Lapresse); a destra, uno scorcio della scrivania dell’architetto e uno dei suoi taccuini di appunti guimento ideale delle scrivanie («Colleziono arte contemporanea, ormai a casa non ho più spazio e i miei pezzi li sistemo qui»), mentre si appoggia a una singolare madia in legno scuro (sua) messa all’ingresso: «Nel ho riversato tutto il mio amore per la romanità: la forma ellittica, basata sulla pianta storica di Roma, i piedi come due tiare papali divise, le ante che sembrano socchiuse citazione della natura aperta e chiacchierona della città». Gli echi del paesaggio e del contesto trasferiti «dentro», nella lampada porta torcia stile antica Roma, come nella consolle ad anello (papale): «Tutti pezzi unici di grandi artigiani che hanno in cura i palazzi della nobiltà cittadina: è il mio contributo per preservarli».
All’ammezzato l’atmosfera cambia: «Amo il design scandinavo e i grandi maestri italiani», dice sedendosi alla scrivania (di Zanuso) rischiarata dalla lampada Nesso, tra libri d’arte e vasi di Alvar Aalto, nel suo ufficio personale con vista sull’open space. «Lavoro qui solo se sono solo, altrimenti rimango
Il mobile «Ho ideato una madia che riecheggia la pianta ellittica della città e la natura chiacchierona»
Cambio di scena Nell’ammezzato un omaggio al design scandinavo e molti oggetti della memoria
sotto, accanto ai miei collaboratori». In giro, oggetti della memoria: «Sono un frequentatore delle aste e dei mercatini: non c’è una logica di acquisto, solo l’innamoramento...», dice, aprendo le ante della credenzina vintage che funge anche da bar, su cui spicca una vecchia Olivetti. «Era di mio nonno, è la mia icona. È vero, oggi c’è il computer, ma io tendo a usarlo il meno possibile». Infatti, come per incanto, da un cassetto emergono una serie di libricini neri: «Qui schizzo i miei progetti mentre sono in viaggio, annoto idee, disegno davanti ai clienti sulla scorta delle loro suggestioni». Accanto, il classico tavolo riunioni. «Ma non ne facciamo. I miei committenti sono all’estero e li incontro altrove. Poi ritorno qui: Roma rimane il migliore posto al mondo dove creare. E trovare la mia quadratura. Per poi ripartire».