Quella parola che nessuno dice
Gli ultimi giorni di vita di una donna. E quello a cui mai si piegherà: la resa
Continuare a credere nelle cose che danno valore all’esistenza, piccole e grandi. Sapendo che tutto avrà comunque una fine.
Una donna si appresta a morire e lo sa. Qualche settimana, forse un mese o poco più. La discesa è iniziata da anni — interrotta, ripresa, ogni tanto qualche passo nuovamente in alto, poi nuovamente in giù. La ferisce e la sfinisce non potere ormai da molto tempo inghiottire nemmeno un sorso d’acqua, la disturba ancora di più la mancanza di un bicchiere di vino — rosso, come sempre, preferibilmente aspro Terrano del Carso. Continua, negli intervalli a poco a poco sempre più brevi, a seguire rigorosamente da avvocato le pratiche e le cause in corso, le necessità e i problemi delle amiche e degli amici che si rivolgono a lei e, come sempre, ad occuparsi delle difficoltà di alcune persone di cui da tempo si prende cura, a redarguire parenti e amici che si lasciano andare a una certa trasandatezza, a discutere oggettivamente con i medici curanti le falle e le frane che progressivamente si accaniscono su di lei. Non ha nessuna intenzione di far concorrenza a Tito o a Sharon, di sopravvivere ad ogni costo solo biologicamente, ma trova insopportabilmente retorica e ideologica la zuccherosa chiacchiera mediatica della buona morte procurata e salutata come un’avanzata del progresso.
Non discute se la vita sia un dono o un castigo, anche se i colpi che essa le ha inferto sono stati i più crudeli per una madre, che per anni ha accompagnato l’agonia di un’incantevole bambina. Non coltiva alcun bronzeo stoicismo, ma riconosce la necessità di combattere, per sé e per gli altri; anche nell’occhio del tifone ha conosciuto l’amore, il piacere, il gioco, il riso, l’amicizia, i boschi ed il mare. Ha i suoi limiti, cadute, errori, durezze, decisioni e reazioni sbagliate. Ma non ha mai peccato di omissione, peccato grave anche se così frequente e così presto rimosso dalla coscienza. Non si preoccupa né si occupa del Grande Responsabile di tutta la baracca ma sa, e non solo per un’acquisita familiarità con l’ebraismo, che della pietra rifiutata dai costruttori ossia dell’ultimo degli ultimi, quel Grande Responsabile farà, come sta scritto, la pietra angolare della sua casa.
Intorno a lei, per alcuni mesi, amiche e amici di sempre e nuovi, che si assumono con naturalezza tutto ciò che può esserle gioia ed aiuto, incombenze e assistenze di vario genere, fraterna e libera compagnia. A poco a poco si forma una specie di piccola sanguigna e unita famiglia e certi pomeriggi sulla sua terrazza, che le è difficile raggiungere dalla sua stanza adiacente, sono piacevoli e intensi, talora anche allegri, finché l’ombra crescente non impedisce pure simili ore, ma senza impedire questo vivere insieme, in ganga, come si dice nel nostro dialetto. Anche e sopratutto adesso, nella strana esistenza del dopo, quei compagni e compagne di strada hanno un cuore più caldo per il dono di quegli incontri e di quei nuovi legami formati da lei, semi fecondi caduti in un buon terreno capace di accoglierli, come nella parabola. Pure i medici, di straordinaria competenza e generosa presenza, a poco a poco non sono più solo medici, ma compagni di cammino.
Una decina di giorni prima di morire, impossibilitata anche solo a scendere dal letto, condizione per vari aspetti umiliante, si fa fare la pedicure. Non perché creda di andare un giorno di nuovo al mare, dice, ma perché le cose che si devono fare vanno fatte, per quel rispetto di sé che è la premessa di quello per gli altri. Virtus classica. A qualcuno della brigata di amici viene in mente quel comandante giapponese di una guarnigione massacrata che, invitato ad arrendersi, risponde che quella parola, resa, è impronunciabile, non c’è nel suo vocabolario, soltanto l’imperatore può dirla. C’è chi perde con lei il testimone più consapevole e confidente della sua vita, ora complice ora severo e sempre capace di guardare e di far guardare in faccia le cose. Ma presto sente che non lo ha veramente perso.
Ogni generalizzazione è stupida, ma probabilmente le donne sono più coraggiose degli uomini. Lo sapeva pure Kipling, poeta del coraggio. Libertà dalla paura, dalle paure che incatenano. Quella libertà permette la tenerezza, l’attenzione, l’ironia. Qualche ora prima che morisse uno degli amici le teneva la mano e le parlava. Lei era distesa sul letto, sfinita. A un certo punto ha sollevato un po’ la testa, lo ha guardato stanca e maliziosa e gli ha detto: «Guarda che queste cose me le avevi già dette alcuni minuti fa». Deplorevole e ben nota tendenza di quell’amico al replay, opportunamente deplorata anche sul limite estremo.