IL SIGNORE DELLE GUERRE
La mostra A Piacenza un’esposizione sul condottiero cartaginese che seppe tramandare un’immagine immortale di sé grazie alla capacità strategica. Uno scrittore di gialli storici ne ripercorre la lunga parabola
COSÌ ANNIBALE, PIÙ CHE DALLE IMPRESE È GLORIFICATO DALL’IMMAGINARIO
L o vediamo in una miniatura medievale dell’ab urbe condita di Tito Livio, ai margini di una scena di battaglia. Lui, Annibale, siede in groppa a un bianco destriero e ha in testa una corona. Usbergo, guanti, schinieri e scudo ad aquilone lo consegnano all’iconografia dei re del Trecento francese (epoca da cui proviene il nostro manoscritto, il Ms. 07777 della Bibliothèque Sainte-geneviève di Parigi), nonostante la battaglia in questione si sia svolta a Zama, nel 202 a.c.
Significativo, nella miniatura, è il gesto dell’indice con cui il Cartaginese manda alla carica una coppia di elefanti turriferi che, indifferenti alle frecce nemiche, incombono sull’esercito di Scipione l’africano. Un gesto di comando, quello di Annibale. Lo stesso gesto che ritroviamo a Roma, Musei Capitolini, in un affresco eseguito dalla bottega di Jacopo Ripanda all’inizio del Cinquecento. È sempre la battaglia di Zama. In questo caso però Annibale veste «alla turchesca», con turbante, mantello, sandali e schinieri che culminano sulle ginocchia con delle teste leonine, quasi a suggerire una bestialità latente che enfatizza il legame tra uomo e pachiderma.
Qui infatti Annibale siede sull’elefante, non più munito di torre ma sellato con drappi e tappeti sgargianti. Il condottiero rappresentato dal Ripanda è in pratica un ammaestratore di fiere, un incantatore di serpenti capace di guidare alla carica uomini e bestie tenendo semplicemente puntato l’indice. Un magus.
Del resto, nell’immaginario collettivo il Cartaginese è sempre stato qualcosa di più di un brillante stratega. È l’uomo dell’impossibile, pari ad Alessandro Magno e a Federico II. È l’incarnazione storica della maledizione proferita da Didone nel quarto libro dell’eneide, il rigurgito dell’esotismo fenicio, dell’africa e della Spagna che avanza da occidente e attraversa i Pirenei e le Alpi con bestie formidabili. Bestie per metà elefanti e per metà pedine degli scacchi, sormontate da torri merlate che restano invariate nei millenni, dalle immagini sulle ceramiche del III secolo a.c. agli affreschi claustrali del Duomo di Bressanone. O allo Zooforo scolpito dall’antelami presso il Battistero di Parma. Poco importa che, dei circa 40 elefanti guidati da Annibale attraverso l’arco alpino, pochissimi sopravvissero al freddo. L’immaginario, ancor più del coraggio e delle imprese, ha definito la sua grandezza. Insieme alle leggende sorte su elefanti al valico di ponti, alla storia di un occhio perduto nelle paludi dell’arno e a una tradizione onomastica giunta fino a oggi. A dispetto della crudeltà attribuita a questo personaggio da Tito Livio e da Polibio. La grandezza, del resto, non ammanta solo il Cartaginese ma anche coloro che l’affrontarono. Più di tutti Scipione l’africano, l’eroe che si trasmuta in personaggio letterario nel Somnium Scipionis di Cicerone: un’opera «riscoperta» nel Medioevo, dedicata alle visioni ultraterrene. Acume che trapela anche dal Dialogo dei morti di Luciano di Samosata. Nella 12esima sezione di quest’opera, ritroviamo infatti Annibale e Alessandro Magno che, negli inferi, si rivolgono al saggio Minosse perché egli decida chi tra i due sia stato il condottiero più valoroso. Parla quindi per primo il Cartaginese, definendosi «sovrano dell’africa, signore dei Celtiberi e domatore dei Galati d’occidente», per poi accennare al superamento dei monti, alla discesa del suo esercito lungo le terre del Po e alla distruzione portata fino a Roma. «Queste imprese io feci», conclude, «non chiamandomi figlio di Giove, non facendomi Dio, né raccontando i sogni di mia madre, ma dicendo di essere uomo».
Quella di Luciano è una critica rivolta ad Alessandro, destinata a inasprirsi verso la chiusura del discorso di Annibale. «Tutto questo feci io», sostiene il Cartaginese in relazione alla sue guerre contro i Romani, «ed ero un barbaro, un rozzo della cultura greca. Non cantavo Omero come costui [ovvero Alessandro] e nemmeno fui istruito dal sapiente Aristotele, ma mi guidavo con la sola buona natura». La buona natura della genialità e, forse, dell’avventuroso, quasi selvaggio istinto di tracciare un solco non solo nella Storia. Ma anche nel concetto stesso di grandezza.