Il «format» di quelle battaglie che rivoluzionò l’arte bellica
Tutte le sue unità avevano un compito ad hoc. E persino Roma si adattò
Le guerre puniche furono combattute senza esclusione di colpi: Roma e Cartagine si ingegnarono per poter trovare nuove armi e tattiche. La vocazione imperiale delle due repubbliche era l’unica cosa che le accomunava, per il resto differivano in tutto. L’urbe eterna aveva la violenza come mito fondante (Romolo che uccide Remo): non si avevano diritti politici se non si militava. Cartagine aveva nel suo dna il commercio e i suoi cittadini avevano demandato le incombenze belliche ai mercenari. La tradizione commerciale fenicia si rispecchiava nella forza e nelle capacità delle flotte cartaginesi, abili nell’inventare due nuovi navi Pittura da battaglia, la quadrireme e la quinquereme, che garantirono per oltre un secolo un indiscusso dominio navale.
La superiore qualità e agilità degli scafi, unite all’esperienza degli equipaggi, erano John Trumbull, «Morte di Emilio Paolo a Canne» uno spauracchio per chiunque. A terra, invece, Cartagine basava la sua forza sulla tradizione militare ellenistica, quella di Filippo II, Alessandro il grande e Pirro. Dai sovrani macedoni mutuò l’uso combinato in battaglia della falange e delle cavallerie, pesanti e leggere, mentre dal re dell’epiro prese l’utilizzo degli elefanti da guerra e una maggiore fluidità nella manovra delle fanterie.
Fu il genio militare di Annibale, però, che rivoluzionò l’esercito: nella seconda guerra punica lo portò al livello di quello romano. Maestro di stratagemmi e imboscate, l’ulisse punico sorprese i romani passando per le Alpi e portando la guerra in Italia. Con sé aveva una mandria di elefanti, usati forse per mascherare la debolezza numerica della fanteria pesante, ma che in realtà influirono poco: quasi tutti morirono. L’ultimo, Surus (il Siriano), spirò nei pressi di Arezzo. Annibale non se ne fece cruccio: il suo esercito non si basava più sulla meccanica applicazione di regole e dettami ellenistici, ma su un differente disegno tattico per ogni scontro.
Tutte le unità al suo comando avevano un compito ad hoc da eseguire nel grande piano della battaglia, persino il nemico seguiva il preciso copione che lui aveva scritto. Annibale, infatti, era un perfetto conoscitore della psicologia e delle ferree tradizioni ● Andrea Santangelo, esperto di storia militare, ha scritto vari libri; ricordiamo L’italia va alla guerra, il falso mito di un popolo pacifico (Longanesi) di guerra romane. Canne è tutt’oggi considerata e studiata come la battaglia perfetta perché non solo l’esercito punico eseguì esattamente quello che voleva Annibale, ma lo fecero anche i romani. Per contrastare questo incubo bellico i romani dovettero trovare modi alternativi di combattere. Con Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, smisero di accettar battaglia, poi con Publio Cornelio Scipione, che aveva studiato attentamente Annibale, mutarono le tattiche di fanteria.
Dalla Spagna Scipione portò in dotazione all’esercito il gladio ispanico. Era un’arma a doppio taglio con una lama larga e una punta triangolare affilatissima da ambo i lati. Intruppato nella fitta prima fila della legione e schiacciato contro il muro di scudi del nemico, il legionario romano necessitava di un’arma corta che colpisse i punti deboli di chi lo affrontava e il gladio si dimostrò letale. Scipione poi utilizzò in modo diverso i manipoli della legione, rendendoli tatticamente più indipendenti, sulla falsariga di La tattica quanto faceva Annibale con le sue fanterie pesanti, dimostrando di essere l’unico vero erede del genio militare punico. Roma, per poter vincere, cambiò anche politicamente: concesse la proroga dei comandi ai generali più competenti e derogò dal tradizionale cursus honorum. Il cambiamento, d’altronde, era stato la chiave della vittoria anche nella prima guerra punica. Roma, nata dall’unione di tribù di pastori latini e sabini, aveva sempre basato il suo potere sulle legioni di fanti pesanti, ma per battere Cartagine si inventò repubblica marinara. Copiò una quinquereme punica finita in secca e creò dal nulla una grande flotta.
Per evitare la superiore capacità di virata delle navi puniche, i romani dotarono le proprie del «corvo», un ponte mobile che si conficcava nello scafo nemico e ne permetteva l’abbordaggio, portando così sul mare la guerra terrestre. «Orso» era invece l’altra invenzione che urtava la nave nemica per sbilanciarla e far cadere in acqua rematori e timoniere. Al termine di tre guerre, distruttive come poche altre nella storia, il Mediterraneo apparteneva a Roma, la superpotenza che accolse e metabolizzò meglio i cambiamenti sociali, militari e politici.
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Per contrastare tale incubo bellico, i romani dovettero trovare modi alternativi di combattere